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Sandro Fortunati

Lettere di un’esule – 22

By esule, I suoi articoli

New York Daily Tribune,

sabato 4 giugno 1853

Dopo un lungo silenzio, la Principessa Belgioioso riprende questa mattina in queste colonne il posto che ha occupato così spesso con grande soddisfazione dei nostri lettori. La sua lettera pubblicata oggi sarà trovata insolitamente istruttiva oltre che divertente. Merita l’attenzione soprattutto di coloro che intendono viaggiare in Oriente. Insegnerà loro come evitare di essere largamente truffati durante il loro viaggio. Tutte le persone, sia in questo paese che in Inghilterra, che hanno intenzione di fare quel viaggio, faranno bene a prestare attenzione ai suggerimenti della signora Belgioioso; e tutti coloro che lo hanno già fatto, potrebbero trovare nelle sue parole l’essenza di una saggezza per la quale hanno già pagato caro, ma forse non sono ancora giunti a una piena comprensione.

 

Lettera di un Esule .. N. XXII

Un Lungo Viaggio – Destino di un Ribelle Turco – Ritirata di un Esule – Il Saccheggio di Viaggiatori Inglesi e Americani.

Corrispondenza del N.Y. Tribune
Ciaq Maq Oglou, (Asia Minore,) 1 marzo 1853

 

Ho fallito nel mantenere la mia parola ai lettori del Tribune, scrivendo durante il mio viaggio attraverso l’Asia Minore, la Siria e la Palestina; ma davvero ho trovato impossibile farlo; e tutto ciò che potevo fare, dopo ogni lunga e faticosa giornata di viaggio attraverso colline e foreste ventose e innevate, o attraverso sabbia e la folata bruciante del Remsin, su pianure aride e strade sassose, era scrivere qualche nota solo per fissare i miei ricordi e impedire che l’oblio li sopraffacesse. Poco per volta ho smesso di scrivere ai miei amici, ai miei parenti, ai miei fratelli e sorelle. A poco a poco ho cominciato anche a smettere di pensarci, o di pensare a qualcosa tranne alla stanchezza del giorno appena trascorso, e alla sofferenza che mi attendeva il giorno seguente.

Tale è l’effetto di un viaggio prolungato e fastidioso tra estranei, che parlano una lingua del tutto sconosciuta a te, che vivono in un’atmosfera completamente diversa da quella in cui tu e i tuoi siete abituati a muovervi e respirare; attraverso un paese sterile e spopolato; attraverso città fangose, silenziose e cupe, con compagni sgradevoli, la prospettiva del pericolo e il dubbio sul fine dell’impresa. Ora che sono entrata in quello che considero un porto comparativo, guardo indietro ai miei vagabondaggi con una chiara memoria di tutti i loro incidenti, e sarà un sollievo scoprire di aver raccolto durante la mia penitenza informazioni sufficienti da renderla degna di essere sopportata.

Il mio viaggio è stato lungo, e attraverso paesi raramente visitati dai viaggiatori stranieri. Partendo dall’estremità settentrionale dell’Asia Minore, non lontano dal Mar Nero, ho visitato l’antica Galazia, Bitinia, Cappadocia e Cilicia fino a Tarso; quindi entrando in Siria, ho costeggiato il mare siriano attraverso Alessandretta, Antiochia,Latakia, Tortosa, Tripoli, Beirut, Sidone (l’antica Sidone), Sur (l’antica Tiro) e San Giovanni d’Acri. Poi, girando improvvisamente a sinistra e lasciando la costa, ho costeggiato il piede del Monte Carmelo, attraversato le colline della Galilea, raggiunto Nazareth, visto Sichem e Naplouse (l’antica Samaria), e infine sono entrata nelle mura sacre di Gerusalemme. Questo è stato il mio percorso in andata. Nel ritorno sono arrivata fino a Nazareth di nuovo per la stessa strada, tranne che ho visitato Sebaste; invece di girare verso ovest e verso il mare, ho seguito una rotta settentrionale, ho visto Tiberiade e il suo lago ardente, ho ammirato le belle cime su cui è arroccata la città santa di Safed, ho attraversato quel tratto di deserto che si estende dai Beni Jacob, una delle sorgenti del Giordano, a Damasco, per cercare qualche giorno di riposo nella città regale, dove i miei pochi giorni si sono prolungati in mesi. Da Damasco sono andata a Baalbek; da Baalbek al Monte Hermon, ai cedri del Libano, ad Homs, a Nauca e ad Aleppo, attraversando le vaste pianure abitate dai Turcomanni e passando intorno al piede del Djaour Daghda, ho raggiunto Alessandretta, e da lì il Tauro. Lì ho cambiato nuovamente strada, e invece di passare attraverso la Cappadocia, ho tenuto verso nord-ovest e ho trascorso dodici giorni attraversando le catene del Tauro e dell’Anti-Tauro, arrivando a Konya, l’antica capitale della Karaman. Da Konya sono entrato in Galizia, ma da un lato diverso. Ankara l’ho ora lasciata sulla destra, e attraversando il territorio curdo, ho attraversato le montagne curde che si estendono dal Mar Nero fino a Baghdad. Ci siamo fermati nella piccola città di Bagleadur sul lato nord di quelle montagne, e da lì fino a casa mia c’era solo una cavalcata di tre ore. Come ho già detto, è stato un viaggio doloroso, pieno di pericoli immaginari e di sofferenze troppo reali. Ho dovuto attraversare le pianure dei Turcomanni, le montagne curde, la popolazione di briganti del Djaour Daghda, i rifugi dei Drusi e dei Metuali, e le regioni tanto temute degli Arabi, dei Beduini, degli Ausarj e dei Yezidi.

Dalla mia fattoria ad Ankara, l’antica Aneyro, ai cui abitanti San Paolo indirizzò una delle sue epistole più eloquenti e di rimprovero*, ho dovuto attraversare un territorio che poco tempo fa era il teatro di una guerra civile, il cui principale leader era strettamente legato al mio attuale domicilio. La fattoria che occupo apparteneva precedentemente a Moussa Bey, uno di quelli che alzarono la bandiera della ribellione contro il defunto sultano. Suo padre era governatore dell’intero territorio che si estende da Ankara a Bolo da un lato e a Castan Bolo e Tchangara dall’altro. Insoddisfatto dell’autorità delegata che stava per ereditare dal padre, Moussa Bey radunò un esercito, composto principalmente da cavalleria, fece alleanza con un cugino suo, che possedeva grande influenza e una grande fortuna nella provincia vicina, e inducendo il padre a rifiutare di pagare il tributo al suo sovrano, cominciò a fortificare le principali città del territorio del padre e a saccheggiare il paese circostante: soldati e Pascià furono inviati da Costantinopoli contro il giovane avventuroso e i suoi seguaci, ma Pascià e soldati furono vergognosamente sconfitti. Diversi anni di costante fortuna aumentarono così tanto l’autorità di Moussa Bey e del suo cugino, che fecero trattati d’alleanza con tutti i ribelli che in quel periodo devastavano l’Impero Ottomano. Il Pascià di Scodania, assediato nella sua residenza dalle truppe del sultano, i due Beys asiatici marciarono in suo soccorso, passando con parte delle loro truppe attraverso Costantinopoli stessa. L’indignazione del sultano raggiunse il suo culmine, e fu decisa l’annientamento del ribelle insolente. Fanteria e cavalleria erano fallite, ma ancora doveva essere provata l’artiglieria, e le fortificazioni di Deré Bey non erano a prova di cannone. Per molti giorni Moussa Bey e i suoi seguaci opposero meravigliosi atti di coraggio personale al fragore dei cannoni, delle micce e dei razzi.

Dopo la caduta del muro, la città non era molto meglio di una montagna di rovine, e un ultimo attacco era atteso ogni ora. Fu in quel momento critico che diversi amici intervennero. Il padre di Moussa Bey era imparentato o per sangue o per amicizia con tutto il gruppo di Pascià. Alcuni di quelli effettivamente favorevoli offrirono ai capi sconfitti il perdono del sultano e persino importanti cariche nell’esercito ottomano. Moussa Bey non aveva altra possibilità di fuga, e con quella prontezza di sottomissione così peculiare degli Orientali uscì tranquillamente dalle sue porte cadenti e si consegnò calmo, senza alcuna affettazione né di coraggio né di fiducia, al comandante in capo delle forze imperiali.

Fu portato a Costantinopoli, complimentato dai Ministri e dai cortigiani per il suo felice ritorno sotto il martello del suo sovrano; fu anche ricevuto in presenza imperiale, offerto il perdono di Sua Maestà, alloggiato in un magnifico palazzo appartenente al sultano e lì intrattenuto secondo i dettami dell’ospitalità più principesca. Tre mesi visse così a Costantinopoli, metà prigioniero e metà ospite, coccolato, intrattenuto e adulato. Accadde qualcosa che cambiò all’improvviso la disposizione imperiale? Non apparve nulla del genere, almeno, ma una mattina alla fine del nono mese dopo la sua cattura, mentre stava sdraiato sul suo divano, fumando il suo chibouk[1]  e bevendo caffè, gli fu comunicato che un messaggero dalla Sublime Porta era in attesa. Dopo essere stato introdotto, il messaggero presentò una lettera sigillata al Bey e rimase immobile e silenzioso mentre veniva letta, avendo precedentemente accertato che quattro dei suoi uomini stavano in piedi nella stanza accanto. La lettera conteneva la condanna a morte del Bey. Non vi dirò se provò disperazione o indignazione, se cercò di resistere o di fuggire. Non sto scrivendo un romanzo. Una compagnia di soldati regolari era di stanza per strada, davanti al palazzo; e anche se fosse riuscito a fuggire dalla casa, dove avrebbe potuto trovare un rifugio sicuro contro il potere sovrano? Nessuno avrebbe osato dargli riparo o ristoro. Si piegò alla necessità e si sottomise al suo destino, come avevano fatto molti altri prima di lui; non perché il musulmano consideri superstiziosamente che tutto sia scritto in precedenza, dove non c’è pagina per gli errori, ma perché la struttura della società politica turca è così sottile, così simile a una ragnatela nelle sue intricazioni, che l’idea di sfuggire ai suoi decreti è simile alla follia: è un’idea che ogni persona ben educata è stata insegnata fin dalla sua infanzia a non nutrire.

La morte di Moussa Bey era un evento quotidiano in quel periodo nella capitale dell’Impero Ottomano. Pochi lo sapevano – ancor meno mostravano interesse per l’evento; e l’abitudine di pettegolare era del tutto sconosciuta sulla sponda orientale del Mar Egeo, quindi se ne parlò molto poco e presto fu dimenticato. Né la rabbia del Sultano fu soddisfatta con la morte del colpevole. Le sue terre e altre proprietà furono confiscate; i suoi fratelli più giovani, sorelle, mogli e figli furono trascinati a Costantinopoli e consegnati alla schiavitù nelle case dei Pascià favoriti. Solo il vecchio padre sfuggì a questa dura sorte, il sovrano vendicativo sembrava considerare la rovina totale della sua famiglia una punizione sufficiente per reati da lui non commessi. Il vecchio riconobbe la clemenza del Sultano astenendosi da ogni manifestazione esteriore di dolore e da ogni importunità; continuò a risiedere nel palazzo appartenente al suo ufficio; perseverò nella sua lealtà al sovrano e continuò con la consueta routine dei suoi doveri; i suoi amici intimi e le persone del suo harem videro più di una volta grandi lacrime scorrere sulle sue guance rugose e sulla sua barba bianca; ma queste rare esplosioni di dolore furono mantenute segrete, e alla fine la morte trovò il padre affranto circondato da onori e ricchezze.

Il destino dei membri più giovani della famiglia di Moussa Bey rimase invariato fino dopo la morte del Sultano Mahmud e l’ascesa di suo figlio e successore, Abdul Medjid. L’attuale sultano non è un genio, né un politico, né un riformatore, ma è semplicemente l’anima più gentile e amante della giustizia che abbia mai trovato spazio nell’atmosfera impura della legge mussulmana. Non ha formato alcun piano per il miglioramento della loro misera condizione; ma non ha mai sentito parlare della sofferenza di qualcuno senza desiderare di porvi fine, e tale desiderio gentile non viene facilmente dimenticato. Il nome di Musta Bey fu forse pronunciato davanti a lui; forse qualche incidente richiamò alla sua memoria la cupa storia. Qualunque fosse la causa, il fatto è che poco dopo la morte di suo padre Abdul Medjid si informò sulla famiglia del Bey defunto. Fu informato delle loro sventure; quelle sventure giunsero ora a una conclusione. La libertà fu loro restituita, e poiché la libertà da sola non offre cibo sufficiente per i grandi dell’Oriente, una parte delle terre possedute dai loro antenati fu data insieme ad essa. La principale moglie di Musta Bey, una donna bella, intelligente e determinata, sposò il maggiore dei fratelli sopravvissuti del suo defunto marito. Sua madre andò a vivere con un altro dei suoi figli; ciascuno dei fratelli prese dimora separata nel piccolo villaggio a cui apparteneva la sua parte dell’eredità terriera, dove si stabilirono tranquillamente come gentiluomini di campagna anatolici, – poveri sostituti per i successori di un Deré Bey.

Una singola proprietà, comprendente una piccola valle verde, bagnata da un fiume tortuoso e chiusa su ogni lato da colline boscose e montagne alberate, rimase indivisa e di conseguenza abbandonata. Quella valle, con il suo fiume, la sua montagna e le sue foreste, l’ho acquistata dai fratelli di Musta Bey e qui, nella scena ora tranquilla di tanta confusione e lotta, ho cercato rifugio dalle conseguenze della catastrofe del 1848 e dallo spettacolo straziante che si presenta agli occhi in Europa. Alla mia partenza per Gerusalemme sono stato accompagnata durante il mio primo giorno di viaggio dal fratello più giovane di Musta Bey, un uomo bello, molto simile, dicono, al suo sfortunato fratello; un vero Osmanli, con un carnato scuro, immensi occhi neri, un naso diritto ma corto, labbra piene ma ben modellate, un viso piuttosto rotondo e una buona figura anche se incline all’obesità. Anche se non ricco, cavalcava una bellissima giumenta curda, indossava un grande turbante verde pittorescamente piegato (a testimoniare la purezza del suo sangue) e un ricco mantello arabo, chiamato Machdac, di una pregiata trama di lana, lavorato con argento e oro, era gettato sulle sue spalle. Così equipaggiato, rappresentava un tipo suggestivo di quei capi orientali che si dice siano scomparsi, perché non si vedono più a Costantinopoli, dove il costume ibrido inventato dal sultano Mahmud ha sostituito la tunica larga e il turbante gonfio.

Mentre cavalcavamo lungo il cammino, il giovane Bey mi mostrava i villaggi, i campi, le colline e la pianura dove si erano combattute tante battaglie, vinte e perse. Prima passammo vicino alla residenza attuale di un altro fratello di Musta Bey, il piccolo villaggio di Verandcheir, il cui nome è un testimone storico degli eventi recenti, poiché Verandcheir significa in turco una città in rovina. Ma senza questo nome non potresti mai immaginare che un così povero villaggio fosse stato solo pochi anni prima un luogo fiorente. Girando a sinistra raggiungemmo la piccola città di Bayeadur, situata sullo stesso dolce fiume che bagna la mia proprietà e a soli centinaia di metri dalla una volta maestosa residenza del cugino e alleato di Musta Bey, il cui destino fortunatamente fu meno crudele. La sua capitale, tuttavia, non fu trattata altrettanto indulgentemente. Un bel ponte di pietra, il minareto di una moschea in rovina e le mura traballanti di un vecchio baraccamento sono gli unici resti della città catturata. Il nascente villaggio di Bayeadur è costruito con le pietre sparse che appartenevano al suo predecessore.

Qui ho preso un gentile congedo dal mio amico turco e ho lasciato alle mie spalle la catena di montagne che circonda nella sua ombrosa valle la mia fattoria turca e la radice che chiamo mia in questa lontana terra, tra questi stranieri dieci volte più numerosi. E non è stato senza un dolore interiore che ho detto addio a quel posto tanto amato, dove l’eco dei conflitti del mondo giunge così smorzata che potresti scambiarla per un sussurro pacifico. Lì ho trovato silenzio e riposo, quando scacciato dalla mia terra natia e dal mio paese adottivo, quando a malapena conoscevo un posto in Europa dove potessi mettere piede senza pericolo per me stesso e per coloro che avrebbero potuto accogliermi. Lì ho trovato ospitalità, protezione e assistenza; lì avevo alcuni poveri amici, poveri e oscuri davvero, ma che mi salutavano con sorrisi gentili e si addoloravano per la mia partenza. Non era malvagio voltare le spalle a questi ultimi doni della Provvidenza e avventurarsi di nuovo nell’ignoto, nel mondo strano? Tali erano le voci che parlavano nel mio cuore, mentre il mio cavallo arabo incosciente mi portava oltre la vasta pianura che conduceva a Tcherkess, l’antica Antinopolis. Molti, suppongo, sono i viaggiatori che, alla vigilia della partenza, hanno ricevuto tali avvertimenti interiori, ma pochi, forse nessuno, mai vi presta attenzione. Come potremmo abbandonare i nostri piani ben elaborati, allontanarci dai nostri compagni di viaggio, restituire le nostre lettere di presentazione, informare i nostri amici del nostro cambiamento di mente, solo perché i nostri cuori scelgono di ascoltare e ripetere qualche vano presentimento di un male lontano? No; siamo partiti e dobbiamo continuare. La strada davanti a noi è aperta, facile, allettante; ma il solo pensiero di ritrarre i nostri passi ci riempie di disgusto e stanchezza, che sia lungo e pericoloso andare avanti, mentre il ritorno è breve e sicuro.

E così ho zittito il fedele monito. Guardai avanti e cercavo di confortarmi con piacevoli anticipazioni degli eventi del viaggio. A Tcherkess fui accolta dal vecchio Mufti, il prototipo del patriarca orientale, circondato da mogli, bambini, figli e figlie cresciuti, concubine, schiavi neri e bianchi di entrambi i sessi, amici e clienti. Il Mufti di Tcherkess è uno degli uomini più rispettati, più intelligenti ed esemplari dell’Asia Minore. Anche se ha quasi un secolo di vita, è ancora in salute e forte, il suo incarnato rosato e liscio, gli occhi scintillanti e morbidi, i denti perfetti, e la leggera curvatura della sua alta figura è più l’effetto dell’abitudine che dell’età avanzata. Quando vado a Tcherkess è il mio padrone di casa, e si offenderebbe molto se bussassi a un altro portone. La sua casa consiste in una stanza invernale, una stanza estiva e una stanza posteriore per figli, servitori e ospiti minori. La prima volta che lo visitai, dedussi dalla strettezza dei suoi alloggi che sarei stato mandato nell’harem, una crudele penitenza per me, che non posso abituarmi al costante disordine e sporco delle stanze delle donne. Ma il buon vecchio uomo indovinò o vide la mia angoscia, e quando il suo servitore gli chiese quale stanza fosse destinata a me, rivolse il suo volto sorridente verso di me e disse: “Non ti metterò nel mio harem tra bambini, schiavi neri, odori di cucina e altre simili cose, ma andrò io stesso lì e lascerò la mia stanza a te.” E durante il mio soggiorno e le mie visite successive ho sempre goduto dello stesso privilegio.

Nessuna persona non familiare con i dettagli della vita orientale può valutare al suo vero valore la cortesia del mio vecchio amico. Per un gentiluomo europeo rinunciare alla propria stanza per una visitatrice femminile è solo un evento quotidiano, non degno del minimo elogio. Il gentiluomo si ritira in un’altra stanza, monta un letto nella sua stanza da vestire o nella biblioteca, trascorre la giornata nel suo studio o nel salotto, e tutto procede senza intoppi come se nessun intruso avesse varcato la soglia della sua porta. Qui è tutt’altra faccenda. Ho preso per me la stanza del Mufti, e lui è andato a dormire nell’harem, senza che io pensassi di dover pagare migliaia di scuse per essere stata l’occasione di tale trasloco. La mattina seguente, però, ho preso una visione diversa della situazione. Arrivarono visitatori e furono costretti a fare la loro visita nel cortile o sulla scala, perché non ero ancora vestita. Più tardi nella giornata arrivarono anche i membri del Divano e furono ricevuti più o meno come i visitatori precedenti, perché stavo facendo la mia siesta. Alla sera i membri principali del clero vennero a offrire la loro ringraziamento ad Allah in presenza del Mufti e furono costretti a fare la loro prostrazione all’aperto. Ho l’abitudine di ritirarmi poco dopo il tramonto e così non solo l’intera città e i suoi abitanti più distinti, hanno sofferto per la mia intrusione nella sua casa.

Una volta illuminata sulle conseguenze di usurpare i suoi alloggi, avrei molto volentieri, alla mia prossima visita, rinunciato al privilegio così concesso a me e mi sarei ritirata nell’aria cupa dell’harem. Ma una volta compreso che qualsiasi disposizione, per quanto scomoda possa essere per il mondo intero, è più probabile che dia conforto a un ospite, vi renderete conto che è impossibile convincere un padrone di casa orientale a cambiarne anche la minima cosa. Il mio povero Mufti avrebbe preferito dormire nella fontana che sgorgava nel suo cortile piuttosto che permettermi di lasciare il suo selamlik[2]. Anche se ho trascorso più di un giorno a Tcherkess, non ho mai raccolto abbastanza coraggio per andare a visitare le sue rovine, o, per parlare più correttamente, quelle di Antinopolis. Senza prendere la briga di guardare, sapevo cosa avrei visto se mi fossi sottomessa: alcune pietre sparse, i resti confusi di molti disastri, di molti edifici, di epoche e popoli diversi. In Europa, quando vai alla ricerca di rovine, sai cosa è probabile che incontri con i tuoi occhi curiosi. Ma in Oriente, le rovine si sovrappongono a rovine e richiedono la migliore abilità di un antiquario di prima classe per riconoscerle e attribuire a ciascuno strato il suo posto, origine ed età appropriati. Non ho tale capacità e quindi, superando la mia falsa vergogna per la mia mancanza di curiosità, di solito evito di visitare luoghi che, per quanto allettanti possano essere per ogni turista anche di modeste pretese, per me sono privi di interesse. Antinopolis è stata probabilmente costruita da qualche romano Antonius, forse da quel Lovelace di cui la storia ricorda insieme a Cleopatra. Perché no? E cosa ci importa?

Prima di procedere, permettimi di dirti alcune verità molto utili riguardo ai prezzi reali e supposti di generi alimentari e alloggi in Oriente. Inghilterra e America producono nove decimi dei turisti orientali; e inglesi così come americani essendo considerati gli uomini più ricchi al mondo, la conseguenza è che tutto viene loro venduto a venti volte il suo valore. Il modo in cui vengono fatte queste disposizioni merita una menzione particolare.

Un signore inglese o americano, sia single che accompagnato dalla sua famiglia, desidera fare un tour attraverso Siria ed Egitto – l’Asia Minore essendo, non so perché, raramente visitata. È ospitato a Pera nell’hotel alla moda di Giuseppina e chi le successe, o in qualche altro posto altrettanto caro ed elegante. È subito favorito con una dozzina di dragomanni, tra cui è autorizzato a scegliere. Ma lascia che svolga gli occhi e accetti il primo arrivato, ognuno dei quali è tanto cattivo quanto l’altro. Il dragomanno inizia dipingendo un quadro formidabile dei pericoli, dei disagi, del costo di un tale viaggio non assistito da lui stesso, concludendo con un solenne giuramento di affrontare e sconfiggere tutto, in modo che il suo padrone o padroni non soffrano minimamente né dal clima, né dalle cattive strade, dai briganti, né dalla fatica. Si prenderà cura di tutto, fornirà cavalli, guardie, guide, alloggio, cibo per bestie e uomini, servitori e passaporti. La spesa sarà molto moderata. Tutto compreso, verrà a costare due ghinee al giorno per ogni padrone e una ghinea e mezza per ogni servitore. Il viaggiatore inglese o americano, abituato a viaggiare in posta o in treno, si chiede come un viaggio in questi paesi barbari possa essere così economico. Concede volentieri al suo fedele ed economico dragomanno 800 piastre al mese per il suo salario e inizia i preparativi secondo i suoi dettami.  Deve comprare due o tre tende, un numero adeguato di letti pieghevoli, sedie e tavoli pieghevoli, materassi, cuscini, coperte, tappeti, selle, borse da sella, mantelli, pellicce, una cucina brevettata trasportata in una scatola, un servizio da tavola comprendente piatti, coltelli, forchette e cucchiai, articoli per il tè, articoli per il caffè, vino, liquori, una scorta di zucchero, caffè, tè, sottaceti, pesce in scatola, ostriche in scatola, frutta conservata, formaggio, carne salata, prosciutti, lingue, salsicce, patate, gelatina, candele, eccetera, una cassettina dei medicinali contenente magnesia, solfato di chinino, acqua di soda, polveri di Dover, emetici, assenzio, un lancetta e altri strumenti di minore importanza, alcune lampade e scorte di olio, e una grande quantità di candele di cera, candelieri e così via. In effetti, non finirei mai se dovessi menzionare tutti i beni di prima necessità che il dragomanno consiglia al suo datore di lavoro di non dimenticare. Tutti questi oggetti, ad eccezione di alcuni alimenti, di solito vengono acquistati da altri viaggiatori appena tornati dal luogo dove il verde ha intenzione di recarsi, il viaggiatore di ritorno lo ha anche acquistato, in modo che dal loro primo venditore all’ultimo acquirente, abbiano passato attraverso una dozzina di mani e compiuto altrettante volte il viaggio in questione. Ma il signore in procinto di partire non ha idea di questo; e paga per ognuno di questi articoli logori esattamente quanto il suo dragomanno decide di tassarlo. È una questione di capriccio senza regole – ho visto due tende perfettamente identiche in dimensioni, materiale, colore e tutto vendute nello stesso posto entro le stesse 24 ore, una per 350 piastre e l’altra per 2.000.

Il turista sale sul suo cavallo noleggiato, la sua signora (se ne ha una) si siede nel suo calessino, e il dragomanno, mantenendo fedelmente la sua promessa, si prende tutto il disturbo e tutte le spese su di sé. Il denaro tascabile del viaggiatore non è mai richiesto se non per il baksheesh e per quegli acquisti fantasiosi che dovrebbero comporre il bagaglio di ogni rispettabile viaggiatore orientale di ritorno.

Vi ho detto che il dragomanno richiede solo due ghinee a testa per i padroni, e uno e mezzo per i servitori. Ora, supponiamo un gruppo composto da tre padroni, un servitore europeo e due nativi (un cuoco e uno per l’amministrazione del caffè e delle pipe), la spesa complessiva non supera le mille piastre al giorno. Vediamo cosa spende realmente, e cosa spenderebbe un viaggiatore sensato se fosse libero dalle tentazioni di Giuseppina e liberato dalla schiavitù del dragomanno. Supponiamo che noleggi quindici cavalli, un numero elevato per sei persone, ma come abbiamo visto, portano un bagaglio pesante. Ogni cavallo viene noleggiato al prezzo di dieci piastre al giorno per il più economico, e quindici per il migliore. Il loro cibo è pagato dal proprietario dei cavalli. Questo fa duecentoventicinque piastre al giorno. Ora, se i viaggiatori dormono sotto le tende, non devono pagare per il pernottamento. Per quanto riguarda il cibo, se le loro provviste non sono sufficienti, e non lo sono mai, così che dopo aver speso una gran quantità di denaro per acquistare cibo sufficiente per sfamare un reggimento per un mese, devono acquistare tutto esattamente come se non avessero fatto alcuna provvista, devono accontentarsi del cibo che si trova nel paese. Questo cibo è riso, polli, uova, pane e talvolta una capra. In tutto l’Impero Ottomano il pane costa dieci centesimi francesi (2 centesimi) per la misura turca che pesa quarantadue once. In Asia Minore si pagano venti centesimi (4 centesimi) per un pollo, e il doppio in Siria; il prezzo delle uova varia molto a seconda delle province e delle stagioni, ma non supera mai sei centesimi l’uno. Il riso costa generalmente tra venti e quaranta centesimi per quarantadue once; una capra da sedici a ventiquattro piastre. Ho dimenticato di menzionare latte e miele, che sono venduti ovunque per trenta centesimi le quarantadue once per il primo, e poco più di un franco per il secondo. In molti luoghi i viaggiatori che sostano nel cuore di immense foreste, possono servirsi di legna senza alcun compenso. Altre province non sono così fortunate per il combustibile e lo vendono abbastanza caro, ossia un franco e mezzo per ciò che caricherà un cavallo.

Da tutto ciò risulta chiaramente che, a parte le 225 piastre al giorno per il noleggio dei cavalli, il dragomanno ha molto poco da spendere. Con quaranta o cinquanta piastre al massimo è sicuro di sfamare l’intero convoglio. È vero che nelle città la spesa è più considerevole. Ci sono alloggi da procurare e prelibatezze da fornire; ma durante il soggiorno in città il noleggio dei cavalli è sospeso, o almeno ridotto alla metà del prezzo. Nella maggior parte dei casi, però, vengono fatte disposizioni con i mulattieri da una città all’altra, e in tal caso, durante il soggiorno del viaggiatore in città, non c’è nulla da spendere per i cavalli. Non devo dimenticare di aggiungere che nessuna delle vittime sfortunate del dragomannato compra a prezzo reale; tuttavia, il fatto è che nessuna di queste vittime nutre la minima sospetto nei confronti del suo dragomanno; ciascuno si considera particolarmente fortunato nel avere assicurato per il proprio vantaggio personale l’uomo più fedele, intelligente, attivo dell’impero turco; e mi diverte e mi colpisce sempre come un curioso esempio di cecità umana, leggere in ogni capitolo dedicato a un Giuseppe, un Giovanni, o un Antonio ( in italiano nel testo, ndt) , in cui il viaggiatore sincero si dilunga sul valore inestimabile dell’uomo. Più di una volta il capitolo termina con un’apostrofe sentimentale al suddetto Giuseppe o Antonio, in qualcosa del genere: “Che queste poche parole, dettate da un cuore grato, raggiungano e confortino l’uomo onesto, che per tanti mesi ha agito verso di me e i miei come un angelo custode, salvandoci dai pericoli imminenti e procurandoci tutti i confort della vita civilizzata!”.

Essendo questo il caso, potete facilmente immaginare che nulla viene fatto o persino proposto senza prendere il consiglio del fedele uomo. Il ricco viaggiatore è entrato a Damasco e desidera comprare alcuni yatagans, spade o pistole; la sua signora desidera raso e broccati, perle e turchesi. Consultano il dragomanno. Il dragomanno risponde che farà indagini, scoprirà gli articoli migliori e i mercanti più discreti, e che i suoi padroni non dovrebbero muovere un passo finché non gli dice di farlo. Quel giorno stesso, il dragomanno si affretta da mercanti ben noti, li informa della visita imminente di una ricca famiglia straniera, e stabilisce il prezzo che esigerà per ogni articolo e la quota che gli sarà assegnata dal bottino. Lo stesso si fa con il medico e con il farmacista, nel caso in cui i viaggiatori non si sentano bene. Il dragomanno viene inviato con i soldi per pagarli entrambi, e dice loro: “Dovete addebitare tanto per la vostra visita o per i vostri medicinali; nei casi ordinari addebitate solo la metà della somma; dividiamo l’eccedenza”: e il patto viene mantenuto fedelmente. So di un medico, so di un farmacista, che si ribellarono contro tale malvagità; ma presto scoprirono che nessun ricco viaggiatore si avvicinava a loro ora ma si recava presso gli imbroglioni arabi che danno consigli nei loro negozi nel Bazaar, e di nuovo si sottomisero riluttanti alla tirannia e alla razzia del dragomanno.

Abbiate la certezza che ogni dragomanno, legato a una famiglia inglese o americana durante un viaggio in Oriente, risparmia almeno ottocento piastre al giorno, non includendo il suo stipendio. Ne conosco uno che dopo ogni spedizione comprava un pezzo di proprietà del valore di ottomila piastre. In otto o dieci anni divenne uno degli Effendi più ricchi del paese. E ora per concludere questo capitolo molto noioso ma utile, permettetemi di calcolare il vero costo di un viaggio in Oriente. Prima di tutto, raccomanderei sempre al viaggiatore di usare cavalli propri. Almeno per la cavalcata; per trasportare il suo bagaglio, lasci che noleggi muli al prezzo di dieci, dodici o anche quindici piastre ciascuno. Un buon cavallo, una delle molte razze di cui parlerò più avanti, costa tra una e due mila piastre a Costantinopoli, ma ovunque altro nell’Impero Turco non raggiungerà il prezzo di mille piastre (220 franchi).[3]

Ho visto e comprato cavalli eccellenti per quattrocento piastre, e li ho trovati attivi, buoni, forti, pieni di vita e docili fino all’ultimo. I cavalli qui non mangiano nulla tranne paglia e orzo, e per sfamarne uno abbondantemente è necessario dare più di dodici soldi di Francia al giorno. Questo è il massimo; ma di solito un cavallo costa da sei a otto soldi al giorno. Ho già menzionato i prezzi dei generi alimentari, e devo anche menzionare il compenso atteso dai ricchi signori di campagna o contadini turchi quando capita di dormire nelle loro case. Cinque piastre di mancia soddisferanno le aspettative più ottimistiche. Per concludere, ho viaggiato per undici mesi con diciassette cavalli di mia proprietà, cinque di un mulattiere, e con un seguito di quindici persone, e quando sono stato rapinata e lo sapevo, anche se mi sono sempre sottomessa per amore della pace e della tranquillità. Molti e molti sono stati i giorni in cui ho speso solo sessanta piastre, e né animali né uomini hanno sofferto per la mancanza.

Christine Trivulzio di Belgioioso.

* Quella ai Galati  (Nota di Cristina)

[1] È una pipa turca con un fusto molto lungo, spesso dotata di una ciotola di argilla ornata di pietre preziose
[2] Il selamlik è la porzione di un palazzo o casa turchi riservata agli uomini, in contrapposizione con il serraglio riservato alle donne e vietato agli uomini. Il selamlik è anche una parte della casa riservata agli ospiti (dalla radice della parola Selam, “saluto”),  dove venivano accolti gli ospiti dai maschi della famiglia. l’harem era la parte riservata alla famiglia dove alloggiavano le donne, mogli e concubine, ed i bambini oltre alla servitù. Era sotto il governo della valide sultan (madre del sultano) e controllato dagli eunuchi.

[3] Da cui si deduce che una piastra equivaleva a 22 centesimi di franco francese dell’epoca.

Lettere di un’esule – 21

By esule, I suoi articoli

Lettere di un esule … n. XXI

Corrispondenza della Tribuna di New York

Cesarea[1], mercoledì 25 febbraio 1852

Forse state pensando che sia stata portata via da qualche tribù Curda e stia aspettando il riscatto che i miei amici stanno raccogliendo per me.
Il lungo silenzio richiede una spiegazione, che in parte troverete nella data di questa lettera. Sono in viaggio verso Gerusalemme, attraverso un lungo percorso che, che io sappia, non è mai stato attraversato da nessun viaggiatore europeo. Dal nord dell’Asia Minore, non lontano dal Mar Nero, sto lentamente scendendo attraverso le antiche province di Bitinia, Gallacia, Cappadocia e Cilicia, fino alle regioni meridionali della Siria e della Palestina. Ho appena compiuto un terzo del cammino, e questo terzo è stato, mi auguro, il più doloroso e noioso del viaggio.

Da Saffran Bolo ho attraversato le montagne curde, chiamate Bazendur Daghda (Monti Bazendur) e ho raggiunto la cittadina di Tcherkess[2], l’antica Antinopoli. Dell’antica città non rimane nulla, se non alcuni pilastri rotti e pietre disperse nella campagna circostante. La nuova città assomiglia a qualsiasi altro villaggio turco. Ben situata e pittoresca, che si vede molto bene a una certa distanza, si rimane sgradevolmente colpiti, entrando, alla vista delle misere e sporche casupole che la compongono. Per darvi un’idea dello stile architettonico di questa e di tutte le città turche, vi racconterò solo un piccolo incidente che mi è capitato il giorno stesso del mio arrivo a Tcherkess. Non avevo ancora scambiato i complimenti e i salamelecchi con il nostro ospitale amico, il vecchio Mufti del luogo, quando fui chiamato ad assistere al letto malato di un alto personaggio, quasi parente del Mufti. Benché fosse ormai notte e le strade fossero in condizioni deplorevoli, non potei che piegarmi alla necessità e partire per la mia missione medica, preceduto da un servitore con una lanterna, che teneva molto vicino al marciapiede per evitare che mettessi il piede in uno dei numerosi buchi che sbadigliavano da ogni parte.

(illeggibile..) continuavo  per lo stesso motivo gli occhi fissi (illeggibile) a terra, quando un forte colpo alla testa mi ricordò che anche questa parte di me richiedeva un po’ di attenzione. Alzando lo sguardo, vidi il tetto di una casa che pendeva davanti al mio naso. “Bene”, dissi, “ho visto abbastanza di Tcherkess, delle sue abitazioni e delle sue strade, dove è necessario prendersi cura dei piedi e della testa allo stesso tempo”. L’aspetto più piacevole del luogo fu la vista dei suoi due grandi khan[2], dopo che mi fui messa sicura in sella per la mia partenza.

(3 parole illeggibili) … spaventoso resoconto del (..) quando ( 6 parole illeggibili); e qui è il caso di osservare che i turchi in generale sono sempre pronti a spaventarvi da qualsiasi progetto di viaggio. C’è la neve, il ghiaccio, il fango; oppure c’è il caldo, il sole cocente e i venti del sud; ci sono i briganti, la mancanza di alloggi, la mancanza di ospitalità, e si è minacciati dalle più gravi calamità, tanto che si è portati a considerarli come il gruppo di persone più vile, ozioso, buono a nulla che si possa incontrare al mondo. Ma quando avrete superato tutte queste obiezioni e avrete espresso la vostra ferma volontà di procedere, non si parlerà più di questo argomento e vi verrà offerto ogni aiuto. Il momento della partenza, tuttavia, potrebbe far vacillare la fermezza del vostro proposito. Il luogo in cui vi trovate si presenta per contemplare il grande evento della vostra partenza verso la terra dei pericoli sconosciuti. Le guardie, o Zappeties, che vi accompagnano, vi precedono, potentemente armate, e quasi sepolte sotto cappotti e pellicce, come se stessero andando in Siberia. I cani ululano al vostro passaggio, i bambini urlano, le donne vi baciano le dita a voi e gli uomini vi raccomandano a Dio perché vi protegga. Tutto ciò indebolisce la vostra mente e sentite che state facendo qualcosa che nessuno di quelli che sono rimasti dietro di voi oserebbe fare. Ma una volta fuori dal luogo e nel deserto, lontano dalla portata degli uomini, i vostri accompagnatori Turchi diventano modelli di pazienza e di forza d’animo.

Nulla li stanca, né li opprime, né li scoraggia. La pioggia o la neve minacciano di soffocarvi o di annegarvi; chiedete con ansia un riparo; non ce n’è per alcune ore, rispondono freddamente, ma queste ore passeranno presto. Se il vostro cavallo scivola, ruzzola e cade, si rialzerà, dicono. E se non dovesse rialzarsi, beh, qualcuno dovrà camminare un po’, tutto qui.

Sono insensibili alla fatica, alla sofferenza, al freddo, al caldo, alla fame e al desiderio di dormire. Non si spogliano mai, non si sdraiano mai se non sulla nuda terra, con il loro mantello per coprirsi; non mangiano altro che il pane più grossolano e l’orzo bollito (quando si trova questa prelibatezza), non bevono altro che l’acqua fresca della sorgente, sono composti e soddisfatti come quando li avete visti per la prima volta ai loro focolari. Yeh Allah! è la frase incantata da cui traggono forza ed equanimità. In effetti, senza essere né turco, né fatalista, né ipocrita, il nome di Dio e l’espresso affidamento alla Sua volontà sono venuti molto spesso sulle mie labbra da quando ho lasciato il tranquillo rifugio della mia casa. Non può essere altrimenti, se si pensa ai molti pericoli che ci circondano e dai quali non abbiamo alcun mezzo per preservarci. E se il vento sollevasse questo oceano di neve e vi seppellisse sotto le sue onde in movimento?

E se la pioggia cadesse a torrenti e vi lasciasse in mezzo a una palude appena formata! E se il cavallo si rifiutasse di procedere e vi abbandonasse lontano da ogni abitazione? E se i briganti vi saccheggiano e vi lasciano senza nemmeno un mantello nelle aride pianure o sulle montagne ancora più aride!

E se gli abitanti del villaggio, ai quali avete chiesto riparo per la notte e provviste, vi chiudono le porte in faccia e vi rifiutano qualsiasi aiuto! E se le vostre forze vi abbandonassero, se la malattia si impossessasse di voi e vi stendesse sulla terra fredda e umida! Nessun denaro, nessun firman, nessuna protezione può esservi utile in questi casi, e dovete rivolgervi per aiuto all’Essere potente la cui mano tesa non è più lontana dal deserto che dalla dimora degli uomini. E quando si pensa ai molti incidenti che potrebbero capitare a un vagabondo sperduto in questi paesi barbari, alle molte porte aperte alla rovina e alla morte, ci si sente davvero tanto stupiti quanto gratificati per il numero esiguo di disgrazie che sono toccate in sorte ai viaggiatori orientali. È vero che coloro che si avventurano in questa parte del mondo sono ben disposti a soffrire molto senza pentirsi e ad affrontare il pericolo senza rabbrividire. È vero che trovano guide fedeli e cavalli eccellenti che li portano a superare tutte le difficoltà. Ma la vita in queste solitudini sembra solo una veste leggera, che può essere portata via in qualsiasi momento dal primo soffio di vento o dalla prima pioggia.

Tra i tanti esempi della rapidità con cui si passa dalla massima sicurezza e dalla situazione più confortevole a una condizione quasi disperata, ne racconterò solo uno.
Eravamo partiti da Tcherkess in tarda mattinata, con una distanza di sole sei ore, e procedevamo abbastanza piacevolmente attraverso la neve alta, sotto i raggi del sole asiatico. Avevamo fatto tre quarti del nostro percorso e cominciammo a guardare l’orizzonte lontano cercando di scoprire, nella foschia del tramonto, il villaggio turco in cui avremmo preso dimora per la notte.

La nostra guida ci precedeva piuttosto imbronciata e rispondeva a tutte le nostre domande sull’ora del nostro arrivo e sulla situazione del nostro alloggio con uno scuotimento della testa, che (…) non portava nulla di buono. Ma noi lo considerammo irascibile e lasciammo perdere. Stavamo salendo lentamente su una montagna. All’improvviso, voltandoci verso est, vedemmo una vasta pianura, terminata da una ripida salita, e nello stesso momento un vento gelido ci investì e ci fece tremare sotto i pelisses. Tuttavia, abbiamo proseguito incuranti di ciò che ci aspettava. Nell’attraversare l’ampia pianura, il vento, in costante aumento, ci raggelava al punto che non riuscivamo quasi a respirare o a tenere le briglie. Ma quando iniziammo l’ascesa, ognuno di noi sentì all’improvviso di avere davanti a sé una lotta per la vita o per la morte. A ogni passo i cavalli, che camminavano in uno stretto sentiero sull’orlo di un precipizio, si insabbiavano nella neve più in basso delle loro ginocchia. Il cavallo di uno dei nostri compagni, messo il piede fuori dal sentiero, affondò nella neve, cadde e seppellì il suo cavaliere sotto di lui (…).

Altri lo assistettero e uomini e animali (…) si rialzarono, ma il freddo si era talmente impossessato del nostro (…) compagno che in seguito si riprese con grande difficoltà a causa di uno spasmo nervoso provocato dall’incidente. Quanto a me, sentivo le mani che andavano velocemente e un dolore acuto che invadeva tutta la mia struttura. Proprio nel punto più pericoloso, qualche metro prima della vetta, incontrammo o meglio raggiungemmo un gruppo di Turchi, composto da tre uomini, una donna, alcune mucche, vitelli e asini. Gli esseri umani cercavano di convincere gli animali a proseguire; ma, non avendo usato argomentazioni perentorie, non avevano avuto successo e si erano fermati, sbarrando la strada e aspettando il piacere delle bestie. Questo fu l’ultimo colpo per noi, che avevamo fatto il possibile per raggiungere in fretta la cima di quelle terribili montagne. Gridammo ai turchi di proseguire, ma le nostre grida si persero nel rumore del vento e dei nostri cani, che credendoci perduti si misero intorno a noi, ululando e lamentandosi a gran voce. Confesso che per un momento ho pensato di essermi persa. Mi accertai rapidamente che mia figlia era vicino a me, poi avvolgendomi la testa in un mantello di Aleppo , seppellendo il viso nel mio grembo, raccomandai tutti noi al Signore del deserto e mi abbandonai alla guida del mio cavallo. Ben presto sentii il povero animale sforzarsi di aggirare gli ostacoli che gli sbarravano la strada.

Lasciava il sentiero, sprofondava nella neve e lottava per mantenersi sul fianco scosceso della montagna. Dopo alcuni momenti di terribile ansia, sentii che aveva ripreso il sentiero e che procedeva più facilmente; poi si trovò in piano; il sole tornò a splendere su di noi e in pochi istanti cominciammo a scendere dal versante opposto, mentre il vento gelido si trasformava in un vento mite. Mi tirai su, mi scoprii la testa, vidi mia figlia accanto a me e vidi una leggera colonna di fumo alzarsi a qualche metro di distanza. “Lì vi riscalderete”, disse la guida, indicando una piccola capanna situata in fondo alla prima discesa. Ne avevamo un gran bisogno. La vitalità delle mie mani era ancora una questione molto problematica; ma le mie sofferenze erano solo un’inezia rispetto a quelle del nostro infelice compagno, che ci raggiunse alla capanna, pallido e tremante, con le lacrime che gli uscivano dagli occhi, torcendosi le mani per la disperazione e dichiarandosi incapace di sopportare oltre. Il calore del luogo rese il dolore ancora più acuto, ma dopo qualche tempo si attenuò e cominciammo a considerarci di nuovo al sicuro.

Da quel giorno in poi non abbiamo avuto più nulla da recriminare agli elementi. Pur viaggiando costantemente nella neve e tra le montagne, in un paese disabitato, dove non si può trovare alcun riparo, non abbiamo avuto nulla da soffrire, se non la stanchezza.

Spero che il viaggio in Siria e Palestina sia piacevole, ma posso garantirvi che il viaggio in Asia Minore è molto diverso. Il paese da Angora a Cesarea[1], passando per la Gallacia e la Cappadocia, è il più arido, il più monotono e desolato del mondo. Si viaggia per giorni e giorni senza scoprire un solo albero, e il terreno intorno a noi si alza e si abbassa alternativamente con una regolarità che sconcerta l’immaginazione più fervida. Devono esserci dei pascoli da qualche parte, dato che gli abitanti del paese, i turcomanni, non hanno altra industria che l’allevamento di grandi greggi di pecore, mucche e cavalli; ma d’inverno, dove non si adotta l’irrigazione artificiale, l’erba si trasforma in paglia, e inoltre ci sono estese brughiere che devono essere verdi sia d’estate che d’inverno. Quando si è cavalcato tutto il giorno in uno scenario così malinconico, quando la fatica degli occhi e della mente non permette di sopportare la fatica del corpo, su quali conforti si può contare? Vi aspettate un gentile saluto orientale, una notte tranquilla e un’accoglienza ospitale? Niente di tutto questo. Ve lo assicuro. Arrivate in un villaggio miserabile, un insieme di capanne pietose, costruite con pietre e fango, perché il legno non si trova.

Gli abitanti di queste capanne corrono a nascondere i loro beni e le loro provviste, mentre i bambini e i cani vi urlano dietro, fissandovi e sorridendo, finché le Zappeties, (per metà guardie e per metà guide), con le loro potenti fruste disperdono la folla e costringono chi nasconde i tesori a riportarli fuori, ad aprire le porte delle loro capanne e a consegnarvi quelle meno scomode. Queste capanne non sono altro che una stalla, una parte della quale, essendo un po’ più elevata del resto e avendo il vantaggio di un camino, è predisposta per il vostro uso. Si ha la soddisfazione di dormire vicino ai propri cavalli, di sentirli per tutta la notte scalciare e mordersi a vicenda e di respirare un’atmosfera che può essere adatta ai polmoni deboli, ma non è piacevole. Il sorgere del mattino è un sollievo dopo una notte insonne, ma un sollievo che non restituisce le forze, e dopo una o due settimane di questa vita si sente la propria capacità di resistenza molto ridotta. Il momento del pagamento delle bollette, prima della partenza, non è il più rallegrante di tutti. L’intero villaggio vi chiede il bakshish. Uno vi ha portato la pipa, un altro vi ha tenuto il cavallo mentre smontavate; questo è il proprietario del vostro alloggio, che vi ha fornito pane, latte e uova. Ieri sera vi hanno consegnato a forza la loro casa e i loro cibi; stamattina vi assalgono con proteste d’amore e di stima, di servizi passati e di devozione presente. Voi pagate tutti e date a tutti, eppure nessuno di loro è soddisfatto. In effetti, le pietre sono talvolta mescolate con la benedizione di cui i Turchi non sono mai avari quando li si lascia.

In questo viaggio uggioso, come ci si sente euforici quando ci si avvicina a una vera città. Qualche ora prima la scena luttuosa diventa invitante e animata. Qui ci sono giardini, viti e alberi da frutto, casette abbastanza ordinate e persone rispettabili che vanno e vengono. Si esce finalmente dalla barbarie per entrare nella civiltà; una civiltà turca, in verità, ma pur sempre meglio di niente. Vi aspettate di trovare una casa pulita, un letto pulito, cibo e persone ragionevoli. Una parte delle vostre aspettative è infruttuosa, ma la maggior parte no. Eppure, dopo alcuni giorni di permanenza ad Angora, a Kis Their[4] o a Cesarea, desideriamo abbandonare queste mura e tornare nel paese aperto e deserto. C’è certamente qualcosa di particolarmente attraente nella natura selvaggia; ma ci si stanca comunque e, se si desidera tornarci, non è per il suo grande fascino, ma per la maggiore repulsività delle città. Una città turca è un luogo logorante in cui vivere, e una città turca è ancora peggio. Non c’è un vetro alla finestra e le stanze sono così buie che non si può né leggere né scrivere né fare altro che bere caffè e fumare la pipa.

I padroni di casa sono molto gentili a parole e nei modi, ma la loro gentilezza diventa spesso invadente e non c’è niente di più difficile che far capire loro che la stanza ceduta allo straniero non è più la loro. Aprono le porte, che non sono mai chiuse a chiave, e irrompono nel vostro appartamento a qualsiasi ora del giorno e della notte, fissandovi, osservandovi, come se la curiosità avesse un diritto illimitato di soddisfazione. Ed è così che dopo alcuni giorni trascorsi in una città turca, in una specie di cantina buia, senza alcun tipo di occupazione, senza un momento di libertà, si sospira per i campi aperti e i luoghi solitari dove c’è almeno libertà e solitudine.
Spero di potervi raccontare meglio l’ultima parte del mio viaggio. Non sono né di malumore né irascibile. Ero disposto a godere di molto e a sopportare altrettanto; ma non è colpa mia se il piacere non è arrivato e se i problemi sono stati più grandi del previsto. La verità non è sempre poetica, ma così com’è, dobbiamo sopportarla.

Christine Trivulzio di Belgioioso

[1] Attuale Kayseri, anticamente conosciuta come Cesarea di Cappadocia

[2] Çerkeş: Città del centro Anatolia.

[3] Caravanserraglio. Edificio costituito in genere da un muro che racchiude un ampio cortile e un porticato. Veniva utilizzato per la sosta delle carovane che attraversavano il deserto.

[4] Forse si riferisce a Kırşehir

 

Lettere di un’esule – 20(bis)

By esule, I suoi articoli
Lettere di un esule… n. XX (b)
Un matrimonio turco.
Corrispondenza del N.Y. Tribune
Asia Minore, 15 dicembre 1851
Sono appena tornata da un matrimonio turco e ho trovato la cerimonia abbastanza strana da raccontarvela. Ho notato che i riti della religione maomettana sono poco conosciuti dagli europei, e non credo che gli americani li conoscano meglio di noi. A parte le abluzioni cinque volte al giorno, che costituiscono la parte principale della liturgia di un mussulmano, non sappiamo né ci permettiamo di chiedere come si comportano i ministri della Mezzaluna nel periodo importante della nascita, del matrimonio e della morte dei seguaci. È bene chiedersi se nulla nei loro riti abbia la più lontana analogia con i nostri, se i miti delle antiche religioni asiatiche non siano da rintracciare in essi, o almeno se la parte rituale della religione maomettana sia altrettanto fantastica, capricciosa, infantile, puerile, priva di senso e di moralità quanto la parte morale.
Dal mio arrivo in questo paese ho cercato di raccogliere alcune nozioni sull’argomento, ma ho incontrato molte difficoltà. L’ignoranza di molti, la diffidenza di alcuni e la naturale taciturnità degli altri hanno finora bloccato le conversazioni che cercavo di avviare su questi temi. Ma i miei occhi hanno visto più di quanto le mie orecchie abbiano sentito, e non dispero di ottenere qualche informazione curiosa sulle cerimonie della chiesa mussulmana.
Veniamo subito al matrimonio, che doveva aver luogo tra il figlio di un mio vicino e una giovane donna del paese vicino. Lei, dicevano, era stata molto contraria a sposarsi con un contadino, a lasciare la città e la sua civiltà e a seppellirsi in questa valle solitaria; ma quando aveva saputo che il villaggio dei Franchi[1] era vicino alla proprietà del suo promesso sposo, aveva acconsentito volentieri, il che era molto lusinghiero per noi. Grazie alla mia doppia qualità di vicino e di creditore della famiglia, fui invitata ad assistere alla cerimonia e dichiarai la mia intenzione di rimanere fino all’ultimo momento per vedere tutto ciò che c’era da vedere.

Il padre, la sorella e alcuni amici di entrambi i sessi della famiglia dello sposo erano andati il giorno prima in città a prendere la ragazza (dodici anni) e ad accompagnarla alla sua nuova dimora. Passeggiando tranquillamente nel mio giardino, la mattina di quel giorno movimentato, scoprii lo sposo vestito con gli abiti di tutti i giorni e con un’aria molto triste. Pensai che fosse accaduta qualche disgrazia che avesse interrotto il matrimonio e, chiamando Hassan, gli chiesi cosa lo affliggesse. “Niente”, rispose il ragazzo, aprendo ampiamente la sua grande bocca con un sorriso intenzionale e ammiccando a me con uno sguardo complice; “niente – ma sto per sposarmi, e sai…”. Di nuovo l’ammiccamento e il sorriso, ma non capii nulla. Fortunatamente la madre si unì a noi e, comprendendo la mia domanda, mi informò che era consuetudine, in simili circostanze, che lo sposo si tenesse lontano da tutta la compagnia e, se per caso qualcuno lo incontrava, avesse un’aria il più possibile seria, imbronciata e trasandata. Una sua risata sarebbe considerata la più grande scorrettezza del mondo – davvero scioccante! – e, cosa ancora peggiore, forse porterebbe alle conseguenze più penose, come cadere sotto il potere del malocchio, essere incantato, o cose del genere. Durante la spiegazione, vidi che il ragazzo si sforzava di non scoppiare in una fragorosa risata e, temendo di attirare su di lui ogni sorta di sventura, ( alcune parole illeggibili. ndr) gli chiesi di tornare non appena la sposa avesse fatto la sua apparizione.

Nel tardo pomeriggio, alcune raffiche di moschetto annunciarono l’arrivo previsto. Mi posizionai sullo stretto sentiero che, passando davanti a casa mia, conduce a quella del mio vicino, e in breve tempo vidi il corteo che si avvicinava. Erano tutti a cavallo. Per primo apparve il padre dello sposo nel suo abito più splendido, seguito da due ragazzi straccioni a piedi che fungevano da paggi. Poi gli amici maschi; poi la sorella dello sposo, una giovane donna sposata da poco, di bell’aspetto e piuttosto intelligente; quella cosa che a prima vista non riuscii a nominare, ma che poi indovinai – per la sua posizione nel corteo e per la potente ragione che non poteva essere altro – essere la sposa stessa.

Ciò che si vedeva di lei era un trapunta che avvolgeva con cura una specie di enorme palla, come siamo abituati a vederne tante ammucchiate sul ponte di una nave mercantile. Seguirono le amiche donne, poi la musica e i ballerini del villaggio vicino, alcuni uomini armati di vecchi moschetti e carabine, che rappresentavano la Guardia Nazionale, e infine gli spettatori, uomini e bambini, che correvano, ridevano e gridavano come persone civili.

Anch’io seguii la cavalcata e arrivai alla casa nuziale, giusto in tempo per vedere l’accoglienza della giovane donna. Mentre fermava il suo cavallo (suppongo che il cavallo si sia fermato da solo, ma non importa) le fu consegnato un bambino di due anni. Lei lo prese in braccio, lo fece sedere davanti a sé sulla sella e, tirando fuori dagli anfratti della trapunta una mela, la diede al monello che, avendo completato la sua parte, fu portato via. Toccò ora alla signora con la trapunta smontare, e mi sembrò un’impresa piuttosto notevole; ma ci riuscì abbastanza bene, e arrivò a terra senza aver disturbato molto la simmetria delle pieghe della trapunta. La sua futura suocera, insieme ad altre amiche e parenti, erano in piedi davanti alla porta pronte ad accoglierla, e non appena lei avanzò un ragazzo le mostrò un tappeto. Su questo tappeto si inginocchiò ai piedi della suocera e rimase un attimo in atteggiamento prostrato, come se baciasse la soglia della sua nuova casa e riconoscesse il suo dovere filiale verso la nuova madre. Ero venuta senza alcun sentimento di compunzione, e piuttosto per assistere a una scena ridicola che a una solenne.

Eppure la vista di quella ragazza, di una bambina che entrava in una nuova vita e si prostrava sulla soglia di essa, implorando pietà e affetto, mi commosse, e mi affrettai a entrare in casa, dove arrivai giusto in tempo per vedere la suocera che sollevava la figlia tra le braccia e la baciava con tenerezza.
Poi la giovane sposa fu affidata alle mani della matrona, la porta esterna fu chiusa su di lei e fu portata negli appartamenti interni. Lì seguì una nuova prostrazione e un nuovo abbraccio, ma il mio cuore era indurito contro gli impulsi di fusione e guardai la seconda rappresentazione, chiedendomi perché la prima mi avesse fatto tanta impressione. Mi aspettavo di vedere la ragazza liberata dalle sue ampie pieghe, ma mi sbagliavo. Nonostante la temperatura rovente del giorno, stava avvolta nei suoi molteplici veli – con la testa, il viso, il collo e le spalle completamente coperti – sprofondando sotto il peso degli abiti, delle sciarpe, dei volant e dei gioielli, in un angolo della stanza, singhiozzando e piangendo con tutte le sue forze. Le signore cenavano, le signore cantavano e ballavano, le signore chiacchieravano e facevano molto rumore. Non così la povera ragazza, che stava in silenzio e non faceva altro che piangere. Lei era l’argomento della conversazione; la sua età, la sua famiglia, la sua fortuna, tutto ciò che la riguardava – fino agli stessi baci che aveva ricevuto quel giorno dai suoi fratelli come stimolo al suo coraggio e alla sua forza d’animo – tutto veniva raccontato, discusso e ripetuto più volte; ma lei sembrava a malapena accorgersi di ciò che dicevano e non prendeva alcuna parte all’intrattenimento.
Le ore si susseguivano alle ore; il giorno passava e arrivava la sera, e con la sera iniziavano il sacerdote, o Imaum, e la cerimonia iniziò. Il sacerdote era seduto su un tappeto steso a terra, fuori dalla porta della casa, tra due dei suoi accoliti. Quando fu il momento e tutto fu pronto, il sacerdote cambiò la posizione seduta con quella inginocchiata, invocò la benedizione di Allah e si rimise nel suo primo atteggiamento. A questo punto apparve lo sposo, con un ragazzino di circa dieci anni, che portava una specie di pasta nera su un piatto e la porse al sacerdote, il quale mise il piatto sul tappeto al suo fianco, prese un po’ di pasta, che in seguito seppi essere la keune, e la fece rotolare tra le dita fino a farne una palla mormorando una specie di incantesimo. Poi prese la mano dello sposo, che con il suo straordinario compagno si inginocchiò davanti a lui, e la chiuse, come se volesse mostrargli come si tira di boxe; ma le sue intenzioni erano di natura molto più pacifica. Tenendo la pallina di pasta sulla punta dell’indice, la introdusse nella mano del giovane e, lasciata in essa la maggior parte della pasta, ne estrasse una piccola quantità, la spalmò sull’orifizio del foro formato dalle dita piegate e, inclinando il pollice su di essa, sigillò l’intera mano e sembrò soddisfatto del risultato. Ma temendo, suppongo, che qualche circostanza imprevista potesse distruggere quest’opera capitale, arrotolò più volte un fazzoletto intorno alla mano chiusa dello sposo e non se ne andò finché non si fu accertato che scioglierla non sarebbe stato un affare di un istante. La stessa operazione fu compiuta sulla testa del bambino; dopodiché, entrambi si alzarono e erano sposati, non uno con l’altro, ma con una povera ragazza, che non aveva preso parte alla cerimonia. Che cosa fece in quel periodo? Nient’altro che quello che aveva fatto fin dall’inizio di quel giorno memorabile: piangeva, e io provavo davvero molta compassione per quella povera creatura.
Altre persone, tuttavia, erano meglio occupate all’interno del balamut. Una ragazzina di dodici anni e un ragazzo della stessa età stavano preparando il divano per la nuova coppia, inginocchiandosi, facendo la corte e cantando a ogni nuovo pezzo di arredamento. Sistemati i materassi, fecero una genuflessione; sistemati i cuscini, si prostrarono sul pavimento; sistemate le lenzuola e le coperte, incrociarono le braccia sul petto, chinarono il capo e cantarono per tutto il tempo. La vista dei loro movimenti era piuttosto piacevole.
A quel punto mi ritirai e rimasero solo i parenti più stretti dello sposo. Ma il mattino seguente andai, come richiedeva il galateo, a fare i miei complimenti alla nuova coppia, e trovai il volto della giovane sposa raggiante di sorrisi. Mi complimentai con lo sposo per l’efficacia dei suoi tentativi di consolazione, aggiungendo che non avevo mai visto tante lacrime asciugate in così poco tempo. “La ragazza era piuttosto giù, ieri, nel lasciare la sua vecchia casa”, rispose la cognata; “ma per quanto riguarda le lacrime, non ha significato; avrebbe dovuto piangere e ha fatto bene la sua parte”. E giurai di non cedere mai, in futuro, alla compassione per una ragazza che piangeva, senza prima accertarmi che non fosse per galateo e decoro che lasciasse uscire le lacrime (parole mancanti) dagli occhi.
Christine Trivulzio di Belgiojoso
[1] Così nel testo. Franks nel senso di francesi, in realtà la fattoria di Cristina.

Lettere di un’esule – 16

By esule, I suoi articoli

Abbigliamento e Pulizia Turca.

Corrispondenza del N.Y. Tribune.

Asia Minore, Lunedì 8 Settembre 1851

Quasi nessun turista orientale ha mai vissuto senza dedicare alcune pagine dei suoi viaggi a maledire la polvere, lo sporco, gli odori e i parassiti del mondo asiatico. Troppo onesto per contraddire la verità di tali rapporti, devo comunque difendere, se non la pulizia positiva dei Turchi, almeno il loro amore per la pulizia. Nulla li sorprenderebbe più del rimprovero di essere trasandati, che essi elargiscono anche più generosamente ai loro vicini europei, senza dire nulla del disgusto che manifestano verso tutti tranne che verso loro stessi, l’unico popolo, come credono fermamente, che osservi perfettamente le regole della pulizia.

L’opinione pubblica non è mai completamente sbagliata, e l’opinione pubblica turca è che la pulizia è proprietà esclusiva del popolo orientale, mentre quella del resto del mondo è completamente agli antipodi di questa, quindi deve esserci verità da entrambe le parti, e la differenza deve risiedere nel diverso punto di vista dal quale viene esaminata la questione. Nel mio ruolo di osservatore imparziale, relaterò fedelmente su quali basi ciascuna di queste opinioni sia fondata, lasciandovi il compito di decidere tra loro.

Innanzitutto, il Turco dice: “Ci laviamo il viso, le mani e i piedi cinque volte, o almeno tre volte al giorno, (alcuni di loro si lavano anche più frequentemente, e se, durante l’intervallo tra le loro abluzioni e l’inizio delle loro preghiere, qualcosa li tocchi o cada accidentalmente sopra su di loro, che considerano coinvolta nell’impurità, tornano a lavarsi di nuovo.) Avendo i capelli rasati a zero, non diventano, come avviene con i poveri cristiani, i repellenti recipienti di ogni sorta di sporcizia. Mangiando con le nostre dita, non mettiamo in bocca le posate che sono passate successivamente attraverso molte altre labbra, una pratica che ci sembra estremamente disgustosa. Ci laviamo accuratamente le mani prima di intingerle nei piatti, e le laviamo altrettanto accuratamente dopo averlo fatto. Ci soffiamo il naso con le dita, cioè lo pizzichiamo artisticamente tra due dita della nostra mano destra, soffiando contemporaneamente con grande vigore, in modo che nulla tranne che la madre terra riceva l’impunità – quella buona e sofferente madre terra, che non disdegna di inghiottire persino la polvere delle nostre ossa. Non c’è nelle nostre case un mobile così disgustoso come un letto, e nei luoghi più poveri nessun occhio è rattristato dalla vista di lenzuola sporche o federe. Ci laviamo una volta alla settimana o più spesso, e questo è considerato da noi come un dovere religioso, dal quale nessuno, povero o ricco, può dispensarsi. Abbiamo, quindi, il diritto di gridare vergogna per l’impurità delle nazioni cristiane, e di chiamarci noi stessi i veri adoratori della purezza e della pulizia.”

Ora la risposta del cristiano: “Vi lavate cinque volte al giorno, è vero, se immergere le mani, i piedi e il viso in acqua, dove ci vorrebbero ore di insaponatura e strofinamento per renderli tollerabilmente puliti, può essere chiamato lavarsi. Ma il motivo del vostro lavaggio non è quello di rendervi puliti, ma solo di compiere un rito religioso; ottenete la vostra abluzione senza preoccuparvi del suo effetto materiale e diretto. In una parola, siete sporchi dopo il lavaggio come prima. È vero che le persone ricche e ben educate hanno mani e piedi puliti, e a volte mostrano una sorta di innocente civetteria nel fatto. È vero che tale precauzione diminuisce il disgusto che altrimenti si proverebbe nel vostro modo di mangiare, immergendo alla rinfusa le dita in un solo piatto: ma se ci sono alcune mani bianche e profumate in Oriente, ce ne sono molte altre che sono nere, ruvide, dure e decisamente sporche; e queste hanno altrettanto diritto di immergersi nel vostro sugo delle mani più bianche e curate. Per quanto riguarda il soffiare il naso, non diremo nulla a riguardo, parlando, come sappiamo di fare, a credenti nel fazzoletto da tasca, anche se voi fingete di considerare quei fazzoletti da tasca dei più odiosi accessori, da indossare solo da mangiatori di maiale e da altre creature impure. Non dormite in letti, e quindi non avete letti sporchi in vostro possesso, il che è abbastanza positivo; ma i vostri divani non sono nulla di cui vantarsi. Non vi spogliate mai di notte, e pensate che sia un grande vantaggio non essere obbligati a vestirvi al mattino; ma poiché la necessità non vi costringe, e la pigrizia vi seduce, passate settimane e mesi senza slacciare le vostre cinture, togliervi i turbanti o cambiare la vostra biancheria intima. Vi vantate dei vostri bagni; ma i poveri, che vivono in villaggi sparsi, non hanno bagni, e gli abitanti delle città non si bagnano mai per amore della pulizia.

Quando sentiamo la parola bagno, siamo abituati a immaginare una certa quantità di acqua in cui ci si tuffa, rimanendo in essa da un quarto d’ora a un’ora intera. Ma è una cosa completamente diversa in Oriente. Là, un bagno è semplicemente una grande stanza, o un piccolo armadio, pavimentato in pietra, con pareti scure e sporche, e un’atmosfera così soffocante che la sudorazione non tarda a comparire abbondantemente, e in questa sudorazione sola il bagnante è avvolto. Una o due donne, o uno o due uomini, a seconda di ciò che preferisce, appaiono sulla soglia della piccola cella, quasi nudi come lui; indossano niente altro che un sorta di panno intorno ai fianchi, anch’esso coperto di sudore e rosso e quasi scoppiante, come lo stesso bagnante; si siedono accanto a lui e cominciano a strofinarlo con un pezzo di sapone, che, grazie al sudore sopra menzionato, aderisce alla pelle. Quando è rivestito di uno strato di sapone, i suoi assistenti afferrano un guanto di crine di cavallo, proprio come quello usato dai garzoni, o guardiani, per lucidare la pelle dei loro cavalli, e seguendo lo stesso principio, cominciano a privarlo del sapone e di parte della sua pelle. Quella parte è davvero molto considerevole, e vi permette di avere un’idea della quantità di quel tessuto con cui potete fare a meno con perfetta impunità. Questo è certamente un processo singolare, ma difficilmente può essere considerato tra quelli di lucidatura o pulizia; e oserei dire che un bagno tranquillo in un fiume limpido, o un lavaggio ancora più modesto alla sorgente più vicina, farebbe molto di più per la pulizia rispetto al elaborato e piuttosto disgustoso bagno a vapore e al massaggio con il guanto di crine dei cavalli dell’Oriente.

Quello che è davvero intollerabile in Asia è la quantità di insetti domestici con i quali sei costretto ad associarti in stretta intimità, faccia quel che fai per prevenirlo. La causa è nella suddetta abitudine di indossare gli stessi indumenti settimane e mesi, senza toglierli, come facciamo noi, di notte, per rimetterli al mattino. Le persone povere in Asia non pensano mai a cambiare la loro biancheria intima finché possono sopportare la presenza dei loro innumerevoli compagni; e se rifletti su quanto siano abituati alla loro compagnia fin dalla nascita, ammetterai che ciò che non possono sopportare più a lungo deve essere qualcosa di terribile davvero. In molti paesi europei, in Spagna, ad esempio, e in alcune parti d’Italia, quella parte del mondo vivente che il signor Tappee definisce Kangorooism, è molto numerosa. Uno dei quadri più ammirati di Murillo[1] raffigura un mendicante spagnolo che uccide diverse varietà di kangaroo che si aggirano sulla sua giacca. Ma, come lo esprime Murillo, è un giorno per uccidere il nemico; e quel giorno essendo generalmente il sabato, ogni domenica è relativamente tranquilla e serena. Ma non c’è una tale stagione in Oriente, dove la vita del più piccolo e umile insetto è considerata molto più degna di rispetto di quella della sua vittima umana. Devo confessare di aver più di una volta scoperto un Turco che evacuava il suo turbante, ma non in modo non gentile o distruttivo. Gli abitanti del turbante venivano tranquillamente e saldamente depositati sul terreno, dove lui sedeva, e lasciati perfettamente liberi di scegliere nuovi quartieri, cosa che non tardavano a fare. Devo affrettarmi a osservare che queste disgustose legioni sono infinitamente più numerose nelle città, e nelle case persino dei cittadini ricchi, che nei più poveri abitacoli della misera gente di campagna. A volte ho dormito abbastanza indisturbata in una capanna miserabile; ma non ho mai goduto di un’ora di sonno negli harem di famiglie ricche e ben educate. I tappeti, i cuscini e i materassi, le pareti in legno sono un rifugio sicuro per i kangaroo più delle dure e nude terre, e le pelli di cervo o di lupo delle case e dei mobili ricchi, e si attaccano alla povertà e alla miseria. L’orgoglio turco si gonfia straordinariamente solo all’idea che i cristiani mangino maiale, rane e in generale, tutte le specie di animali senza che siano stati precedentemente dissanguati. Questo è basato su un principio di igiene, e non ha nulla a che fare con la pulizia.

 

Cristina Trivulzio di Belgiojoso

[1] Bartolomè Esteban Murillo, Bambino che si spulcia, 1645-1650, Parigi, Louvre

Lettere di un’esule – 14

By esule, I suoi articoli

Lettere di un esule. No. XIV

Vita privata del mussulmani

Asia Minore -Mercoledì 20 agosto 1851

Alcune parole di più sui mussulmani non istruiti, e sulle conseguenze fatali della loro ignoranza. Totalmente privati di qualsiasi mezzo di comunicazione con il mondo esterno, sia dai libri che dalla conversazione, i sudditi asiatici del Crescente non sanno nulla di ciò che accade a poche miglia dalla propria casa, e sono irrimediabilmente ignoranti dell’esistenza della scienza, dell’arte e dell’industria. Non hanno idea della loro inferiorità rispetto ad altre nazioni e più volte mi hanno chiesto se nel mio paese sapevamo come piantare il grano e fare il fieno. Quando ho cercato di mostrare loro qualche modo più semplice ed efficace per eseguire i faticosi compiti, si sono meravigliati del mio intervento e hanno sorriso piuttosto benignamente, come a dire: “sei una persona ben intenzionata, ma non hai bisogno di preoccuparti, sappiamo fare molto meglio noi”.

Le nazioni progrediscono nella civiltà come se fossero membri di un unico individuo, aiutandosi a vicenda con i loro punti di forza e i loro doni, in modo che i passi tracciati da uno non debbano essere ripetuti dall’altro. Ma l’Impero Ottomano non ha alcuna parte in quel progetto di partnership provvidenziale; ciò che è stato scoperto, provato e perfezionato nel resto del mondo gli è sconosciuto, e per mantenere il suo posto sullo stesso piano dei suoi vicini civilizzati, sperava di possedere in sé l’intera massa di talento, attività, saggezza e perseveranza distribuita tra gli altri abitanti del mondo. Che ciò non sia il caso non ha bisogno di dimostrazione. Ma le conseguenze di una tale ignoranza totale non si limitano alla più assoluta incapacità di procedere sulla via della civiltà, ha un effetto morboso e dannoso sulle facoltà morali degli Osmanlii. Estraneo all’arte e all’industria, insensibile persino alla curiosità, poiché ignora che ci sono cose degne di essere conosciute, la sua vita è solo il sogno lucido di un’intelligenza a metà viva. Una minoranza è formata da molti successivi deserti, animati solo (se può essere chiamato animato) qua e là da abitazioni sparse contenenti soldati che la vigilanza del governo destina alla sicurezza dei viaggiatori o da alcune capanne ancora più misere in cui risiedono intere famiglie. In ogni capanna una sporca stalla è accompagnata dalle donne; un’altra ancora più sporca dall’uomo. Ma parlerò più avanti della miseria di queste abitazioni turche; e, inoltre, cosa significa la mancanza di ogni conforto materiale di fronte alla desolazione derivante dall’oscurità intellettuale?

Queste, naturalmente, sono famiglie di campagna, e vivono dei frutti del suolo, ma tali frutti sono scarsi, sebbene facilmente ottenibili. Alcuni allevano crudelmente i loro cavalli e mucche. Altri si accontentano di zuppa, insalata e meloni per se stessi; due o tre ore di lavoro al giorno per quattro o cinque settimane all’anno sono sufficienti per estrarre tutto ciò di cui hanno bisogno da uno dei suoli più ricchi del mondo. I soldati, dispersi per le valli e le montagne, sono ancora più inoccupati.

Quando la colonna passa, o alcuni viaggiatori solitari, uno, due o tre dei Zaptiye[1] si alzano dai loro giacigli, accendono le micce dei loro fucili, e chiedono ai viaggiatori attraverso quella parte di strada che si dice pericolosa. Ottengono qualche piastre e, tornando alla caserma, riprendono il triste corso delle loro vite. Qualcosa di pesante e desolato mi opprime il cuore quando contemplo questi uomini dalla costituzione robusta e dal colorito scuro, immagine stessa della forza fisica e della fermezza morale, seduti per terra con le gambe piegate sotto di loro, gli occhi stupidamente fissi nel vuoto, le pipe in bocca, senza dire una parola o compiere un movimento, ugualmente privi di pensieri o sentimenti, e quando penso che dalla loro infanzia alla loro vecchiaia non c’è stato e non ci sarà un giorno migliore di un altro.

Viaggiatori, storici e filosofi hanno cercato di spiegare il strano torpore della mente orientale nell’influenza narcotica del tabacco e dell’oppio, ma sono piuttosto incline a considerare gli effetti di queste due piante come un mitigazione della noia totale che una vita del genere deve necessariamente ispirare anche al più dotato degli esseri umani.

La vera, l’unica ragione per l’azione totale del popolo orientale è la mancanza di eccitazione; quindi l’uso del tabacco, dell’oppio e forse del caffè, privandoli della consapevolezza del tempo che passa lentamente e della monotonia invariabile della loro esistenza, li preserva dalla disperazione alla quale, ma per questo, sarebbero vittime.

L’osservanza dei loro doveri religiosi è un’altra fonte di sollievo per il mussulmano stanco. Cinque volte al giorno si alza in piedi, deposita la sua pipa in un angolo, lava i suoi piedi, le sue mani, le sue braccia, il suo viso, il collo e la testa, prima di inginocchiarsi. Gira il viso verso La Mecca e ripete la formula sacra. Non pregano come facciamo noi, poiché la loro fede nella predestinazione di tutti gli affari umani impedisce loro di avere fiducia nell’efficacia delle suppliche. Le loro orazioni sono una serie di esclamazioni riguardanti gli attributi divini e le perfezioni del profeta, accompagnate dalla ripetizione di alcuni versetti del Corano, come se volessero far sapere a Dio e ai suoi Profeti che il loro libro mortale non è dimenticato dai fedeli. Questo non è tutto il Ramadan, la Quaresima Mussulmana, è una crudeltà. In ogni vita musulmana, e alla fine di essa, il digiunatore attenuato deve ritornare con nuova voglia al suo cibo ordinario, e sperimentare una deliziosa sensazione di sollievo nella routine del suo stupido esistere. Durante quel crudele Ramazan (un mese), ogni mussulmano digiuna dal sorgere al tramonto del sole, e quando il Ramazan capita di cadere d’estate, come ora, nessun uomo, dopo il suo decimo anno – sia in buona salute che in cattiva, lavoratore o persona sanitaria – osa mangiare un solo boccone o bere una goccia d’acqua per sedici o diciassette ore. Cosa possono fare per aiutarsi? Dormire durante tutto il giorno; e così fanno, alzandosi quando il sole tramonta e riempiendo i loro stomaci il più possibile durante le ore notturne. Conosco diversi individui così terrorizzati all’idea di sopportare le torture di 16 ore di fame continua che non sono mai soddisfatti delle precauzioni prese contro queste, e finché dura l’oscurità, tornano indietro e indietro ai loro rituali, come un assediante che controlla le sue fortificazioni per assicurarsi che siano in buono stato e ben difese. Ma non appena il sole sorge ad est, ogni muscolo fedele si lega attorno alla sua vita e rimane nella più completa immobilità fino a quando non è di nuovo notte, senza osare muoversi o parlare per paura di risvegliare il suo appetito addormentato. Pensa solo a come gli abitanti delle zone agricole compiono i loro lavori giornalieri e più necessari, quando il Ramazan capita nella stagione della mietitura. Il grano si secca sulle spighe e cade sul suolo arido; i bachi da seta periscono per mancanza di cure; le viti non vengono potate, tutto va in rovina perché Maometto, nel suo desiderio di fermare l’avidità dei suoi seguaci, ha dimenticato le necessità della vita. Ma, come ho detto, il Ramazan spezza la monotonia dell’esistenza del Turco, e il primo boccone di kebab (agnello arrosto) che mettono in bocca alla luce del giorno nel giorno del Beiram, dopo il digiuno di un mese, è una fonte di gioia pura. Per alcuni giorni dopo la fine del Ramazan, un sorriso si dipinge sui bei tratti di ogni mussulmano, e sembrano dimenticare per un po’ il pesante peso della loro vita stanca e senza scopo.

Cristina Trivulzio di Belgiojoso

[1] La parola turca zaptiye designava la l’organizzazione militare di polizia dell’impero ottomano

Lettere di un’esule – 13

By esule, I suoi articoli

La stagnazione della Turchia – Incapacità di progredire.

Corrispondenza del New York Tribune

Asia Minore, giovedì 7 agosto 1851.

Ho già parlato in modo generale della condizione morale, intellettuale e politica delle nazioni islamiche: le ho definite incapaci di qualsiasi progresso ulteriore nella vita civile; ho deplorato la loro decadenza attuale e fatale e accennato alla legge islamica come alla legge della spada, una legge adatta solo a creare soldati disperati e feroci, ma completamente inapplicabile alle esigenze della civiltà, perché distrugge ogni legame affettivo, sentimento ed abitudine. Ora il mio scopo è mostrarvi come il Corano, il grande libro dell’Oriente, che ha lottato per molti anni contro il politeismo, l’idolatria e la superstizione più stupida e feroce, e ha insegnato per la prima volta alle numerose nazioni dell’Asia l’esistenza di un essere immateriale e unico superiore a tutto il mondo che ha creato, come quel libro ha infine portato i suoi seguaci al basso livello di degradazione che è ora la triste sorte delle nazioni orientali. Diciamo una parola prima sull’istruzione popolare, e più particolarmente sulla letteratura.

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Lettere di un’esule – 7

By esule, I suoi articoli

La condizione domestica e sociale dei Turchi.

Costantinopoli, venerdì 15 novembre 1850

Agli Editori de The Tribune:

Recentemente vi ho detto che la nazione turca, destinata a imprese bellicose, non era costituita per una vita pacifica; così che, una volta chiuso il campo di azione, non poteva evitare un rapido declino e una morte prematura. Uno schema breve della condizione attuale dei seguaci di Maometto illustrerà appieno il mio significato.

Nessun popolo può sviluppare e mantenere la sua forza vitale ed energia durante un periodo di pace se non attraverso il lavoro; vale a dire, attraverso il commercio, le arti e l’industria, ognuna delle quali è vietata dalla legge musulmana. Tuttavia, un popolo può perdere la sua energia e di conseguenza la sua ricchezza, senza cadere molto in basso nell’estimazione di altre nazioni, e senza degradare il proprio carattere o essere.

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Lettere di un’esule – 6

By esule, I suoi articoli

Lo Spirito dell’Islam – Declino della Turchia.

Costantinopoli, venerdì 25 ottobre. All’Editore del Tribune:

Dopo aver rapidamente delineato la condizione dei diversi Stati europei, ci resta da considerare le circostanze in cui l’oriente, sempre misterioso e creatore di meraviglie, si trova attualmente, e le conseguenze probabili che ne potrebbero derivare nei prossimi anni. Per quanto ne so, né le popolazioni musulmane né le leggi musulmane sono mai state esaminate in modo imparziale e sagace. Entrambe sono state oggetto di ira bigotta o di entusiasmo filosofico infantile. I cristiani hanno stigmatizzato il Profeta dell’Oriente come un pazzo, una sorta di ultraradicale epicureo che ha fondato una religione solo per soddisfare istinti bestiali ed eccitati; un impostore, un ateo, lo spirito incarnato dell’immoralità. Mentre vari nemici della fede cristiana e di tutte le sue conseguenze hanno cercato di stabilire una vergognosa e ridicola comparazione tra il divino fondatore della nostra religione e il Profeta degli Ottomani, pretendendo anche di scoprire in molti punti una superiorità del secondo sul primo.

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Lettere di un’esule – 5

By esule, I suoi articoli

La tragicommedia dei tedeschi – Potere russo e schemi russi.

Costantinopoli, sabato 5 ottobre 1850.

La recente storia della Germania si racconta presto. Le classi superiori sono nemiche della riforma e delle rivoluzioni, a causa del loro egoistico attaccamento ai privilegi; le classi inferiori sono indifferenti, essendo abbastanza felici con vestiti, cibo, lavoro e pace. Dei diritti politici sanno molto poco e quindi se ne curano ancor meno. La rivoluzione ebbe origine interamente dalla classe media, molto numerosa, che includeva gli studenti e i professori delle università, avvocati, medici, il clero e tutti coloro che sono considerati uomini di scienza.

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New York Daily Tribune 1850-1853- Lettere di un’esule

By altri_articoli, I suoi articoli, In Prima Pagina, news
Alcuni anni fa ho ritrovato diverse lettere inedite di Cristina pubblicate negli anni 1850-1853 sul New York Daily (e Weekly) Tribune.

Le lettere trattavano di politica internazionale, della cultura turca e delle avventure di Cristina in queste terre così lontane dalla sua Lombardia.
Anche se simili nel contenuto sono differenti dalle storie pubblicate nella Revue des deux Mondes dal 1855 al 1858.
Nei primi mesi del 2011 sulla rivista “Storia in Lombardia” ne e’ stata pubblicata una selezione. («Memorie di un esule». Gli articoli di Cristina di Belgiojoso su un giornale americano.”)

In questo articolo promettevo di pubblicare la traduzione ma purtroppo il tempo è passato e la cosa non è mai stata fatta. Visto che ancora non sono state pubblicate da nessuno, anche se con un ritardo notevole, provvedo a pubblicarle.

Qui sotto trovate l’introduzione alla pubblicazione della serie di lettere di Cristina sul giornale americano e più in basso la lista ( non ancora completa) e la mia trascrizione.

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“La Démocratie pacifique”, 20 maggio 1845 – Progressi del principio di associazione in Lombardia.

By Gli articoli che parlano di lei

Questo articolo è anche ripreso dal Journal d’agriculture pratique, settembre 1845, pagine 115-117.

Progressi del principio di associazione in Lombardia.

I nostri lettori non leggeranno senza interesse la traduzione di una lettera indirizzata al direttore della Gazzetta privilegiata di Milano, e inserita in questo giornale il 2 aprile; si uniranno a noi nei voti e nelle speranze espresse nell’ultima parte di questo lavoro.

Signor Direttore,

Il soggiorno di Sua Altezza la principessa Cristina di Belgioioso, nata marchesa Trivulzio, a Locate, soggiorno che è stato già segnalato da istituzioni considerevoli di beneficenza pubblica, ha dato luogo, quest’anno, alla fondazione di due istituti completamente nuovi nel paese, e che meritano di essere portati alla conoscenza del pubblico. È per questo che le indirizzo questa lettera, pregandola di farla pubblicare sulla Gazzetta privilegiata. So con quale premura le piaccia rendere pubblico tutto ciò che può contribuire al vantaggio generale.

Fin dall’inizio dell’inverno, la principessa aveva pensato di erigere a Locate un luogo di riscaldamento pubblico dove i membri delle famiglie che compongono la popolazione potessero essere al riparo dalla rigore della stagione, e dove le donne potessero continuare i loro lavori ordinari.

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Gazzetta Privilegiata – 2 Aprile 1845 – G. Lambertini – Opere a Locate

By Approfondimenti, Gli articoli che parlano di lei

n. 92 – 1845                                                                                       MERCOLEDI’ 2 APRILE

GAZZETTA PRIVILEGIATA DI MILANO

 

Appendice

Pregiatissimo Signor Estensore,

Il soggiorno della signora Principessa Cristina di Belgiojoso, nata Marchesa Triulzi in Locate, che fu già negli anni scorsi contrassegnata dalla istituzione di considerabili pubbliche beneficenze, ha in quest’anno dato luogo alla attivazione di due stabilimenti, che per essere in questi luoghi affatto nuovi, meritano, a parer mio, di essere portati a cognizione del pubblico. Egli è perciò che io oso dirigere a Lei la presente, interessandola a volerla inserire nella sua Gazzetta privilegiata, dal che mi lusinga il sapere come Ella accolga con premura e si compiaccia di render pubblico tutto ciò che può contribuire al comune vantaggio.

Fino dal principio dell’inverno la signora Principessa aveva ideato l’erezione in Locate di un pubblico scaldatojo, dove potessero gl’individui, se non di tutto, almeno della maggior parte delle famiglie ond’è composta la popolazione del principale abitato del Comune di ripararsi dal rigore della stagione; e quanto alle donne, attendervi ben anche agli ordinarj loro lavori.

Questa idea fu ben tosto realizzata dietro le disposizioni da essa impartite, e corso appena il tempo necessario all’adattamento del locale venne infatto attivato lo scaldatojo in un ampia sala comodamente capace per 300 piazze, salubre per la sua esposizione a perfetto mezzogiorno, possibilmente guarentito [sic] dall’umidità, mediante un ben costrutto pavimento, assai bene ventilata, e con luca abbondantissima derivante da mole e larghe finestre munite di invetriate, illuminata la sera da molteplici lampade, e finalmente riscaldata colla maggiore regolarità da una stufa proporzionata alla vastità del locale. Lo scaldatoio è accessibile all’alba del giorno, e rimane aperto fino alle undici ore della sera. E’ inutile dire come tutte le famiglie de’ villici ed artigiani del paese ne abbiano a gara ricercato l’accesso, e tutti l’ottennero finché il permise la capacità del locale, di modo che fino dal primo giorno della sua attivazione lo scaldatojo ricoverò circa trecento individui che prima erano costretti a disperdersi in angusti tugurj, che tali possono chiamarsi le piccole stalle sparse per il paese eccessivamente, malsane per la loro ristrettezza, per l’umidità derivante dalla pessima loro costruzione, e per le fetide esalazioni che vi diffonde la permanente dimora delle bestie che vi sono ricoverata, e l’ammasso de’ loro escrementi frammisti a vegetabili che vi si lasciano imputridire.

Volle la signora Principessa che l’ideato stabilimento non solo offrisse un soccorso materiale al bisogno della indigenza, ma somministrasse altresì nel radunamento di quasi tutte le famiglie una favorevole occasione per ispirare a tutti in comunione i sentimenti di una reciproca ed amorevol fratellanza, per ravvivare in essi l’osservanza de’ principali doveri di religiorni e di società.

Ad ottenere questo scopo, prescrisse che apposite persone, fornite di sufficiente capacità e distinte per carattere e condotta, si prestassero a farvi in ore determinate della giornata lettura di libri adatti alla comune intelligenza, e vi si mantenesse la pratica delle solite preci segnatamente la sera prima di separarsi.

All’apertura dello scaldatojo tenne dietro una seconda filantropica e vantaggiosissima istituzione, quella cioé di una cucina economica eretta e mantenuta a spese della prefata signora Principessa, e collocata a lato dello scaldatojo suaccenato, dalla quale si dispensano giornalmente al mezzogiorno, e talvolta anche la sera, quante minestre vengono richieste, composte alternativamente di riso e pasta, frammisti a legumi o verdura, e condite con lardo, butirro [burro], olio, ecc. La quantità di ciascuna minestra è determinata alla capacità di un boccale, e si dà al prezzo di dodici centesimi 1, prezzo che andrà presto a diminuirsi riducendosi a soli dieci centesimi, dacché accrescendosi per le mote ricerche che se ne fanno, l’ordinaria distribuzione va a rendersi proporzionalmente minore il costo delle medesime. Il pagamento delle minestre che si somministrano, può farsi giornalmente, in fine d’ogni settimana,od anche maggior periodo di tempo, o a denaro che si raccoglie da persona a ciò delegata o con lavori di determinato prezzo, pei quali si somministrano dalla nobile istitutrice le materie prima, come sarebbe lino da filare, filo da tessere o far calze, tele da cucire, ecc.
E notisi che anche i prodotti di questi lavori sono già dall’animo benefico della signora Principessa destinati in prevenzione o a far parte delle abbondanti elemosine che per le si distribuiscono durante il corso dell’anno, o ad essere vendute al pure costo in occasione di sagre, o di altre circostanze che attirino affluenza di persone da’ luoghi circonvicini in paese, nella vista di fornir mezzi anche ai meno bisognosi di probbedersi con minor dispendio degli ogetti di lingeria, o di vestiario occorrente alle loro famiglie.

Per ben calcolare i vantaggi che devono emergere dalle sovraccennate istituzioni, è d’uopo por mente al depredamente a cui vanno generalmente soggette le campagne poste in vicinanza de’ luoghi abitati per l’arbitrio che prendonsi tratti da necessità i piccoli artigiani e giornalieri non appostati di procurarsi il combustibile per uso delle rispettive loro famiglie sui fondi altrui.

Ora cessando, o simmamente diminuendosi nella famiglie il bisogno di combustibile, chi non vede come tolto ogni pretesto alla devastazione delle piantagioni nelle limitrofe campagne, vada ad essere per l’avvenire più rispettata o guarentita [sic] l’altrui proprietà?

In questi paesi poi, ne’ quali l’agricoltura esige in diverse epoche anche l’opera materiale delle donne, considerabile esser deve per queste il risparmio del tempo che esse dovrebbero perdere giornalmente per l’apprestamento del cibo alle loro famiglie, e questo risparmio rinvengono nella distribuzione di una sana minestra ad un prezzo limitatissimo e facilmente scontabile. Si accresce quindi il giornaliero loro travaglio, del quale si aumenta proporzionalmente il prodotto,  e quindi maggiori divengono per ciascuna famiglia i mezzi onde provvedere ad una onesta sussistenza.

Tali sono i vantaggi diretti e reali, che a mio credere devono aspettarsi dalle due istituzioni sovraccennate, le quali non costituiscono forse, se non una piccola parte dei tratti esimj di beneficenza, che dalla nobil dama da più anni si diffondono in questo paese, che oltre al nobilitarlo col presceglierlo a suo soggiorno per non poca parte dell’anno, e collo stabilirvi la numerosa e scelta sua libreria, ed una delle migliori e più pregievoli raccolte di medaglie, Ella si mostra poi intensamente inclinata ad abbellirlo, non risparmiando perciò nè sagrificj, nè dispendio. Vi diffonde copiose elemosine, e pensa a provvedere a migliorare la condizione de’ bisognosi non solo, colle frequenti visite a domicilio, e colla caritatevole somministrazione de’ medicamenti, e di altri non iscarsi soccorsi, ma quella altresì degli altri abitanti di esso se altro non fosse col promoverne l’istruzione.

A questo proposito potrebbe esser fatta menzione, e della scuola infantile a tutte sue spese eretta e mantenuta già da più anni nella quale si tengono giornalmente ricoverati, cutoditi, alimentati ed istruiti cinquanta infividui delle più povere famiglie dell’età di due anni e mezzo ai sei, dell’altra scuola nella quale per di Lei ordine e col mezzo di una delle donne attinenti alla di Lei casa si istruiscono nei lavori donneschi le ragazze, che avendo tocco l’anno dodicesimo di loro età vengono a tenore de’ Regolamenti dimesse dalla scuola elementare; nè a ciò si limita l’istruzione delle suddette fanciulle, che anche nel leggere, scrivere e conteggiare sono assai bene ammaestrate da persona regolarmente abilitata a tale insegnamento, e finalmente e di quella che si fa per di Lei disposizione in giorni determinati della settimana a giovani di età superiore ai dodici anni per affrancarli nel leggere, scrivere e conteggiare, ed istruirli nei primi rudimenti dell’Algebra e Geometria, non che nei rami principali dell’Agraria. Ma queste istruzioni come che da più lungo tempo attivate sono già conosciute, e tutti hanno già avuto campo di calcolarne i vantaggi.

E qui non si limitano ancora i beneficj; ché la signora Principessa intenta sempre a procurare il ben essere di questi abitanti, h agià dato ordini positivi perché cominciando dall’anno corrente siano di mano in mano ricostrutte, e convenientemente adattate le case di sua proprietà, che servono ad uso di abitazione della maggior parte della popolazione in modo da renderle sane, ben ventilate, e capaci a soddisfare a tutt’i bisogni delle famiglie sceverandole da tutti gl’inconvenienti di insalubrità e di immondezza, che derivano dalla male ideata loro costruzione attuale. A quest’opera si è già posta mano sotto la direzione del sig. ingegnere architetto Maurizio Garavaglia, procurator generale della nobile signora, il quale, e per genio, e per zelo nell’adempimento delle di Lei disposizioni si mostra attivissimo e premuroso di ridurla al compimento.

Possa questo nobile esempio essere di emulazione a tutti i facoltosi possidenti di questo Distretto, nelle proprietà dei quali si veggono caseggiati mal proprj, insalubri ed abbisognevoli di una pronta ed utile riforma.

Dei porchi cenni che io ho fatti delle beneficienze che un’anima nobile e generosa sa versare a larga mano sopra la popolazione di un intero paese, ognuno può di leggieri arguire quanto vantaggio ridonderebbe allo Stato, se le premesse istituzioni venissero con eguale filantropia e generosità estese su tutta la sua superficie per opera di quelli ne’ quali abbondano i mezzi di poterle attivare.

Oh! quanto consolante sarebbe il veder sorgere e diffondersi una si nobil secondatrice delle paterne cure dell’Augusto Monarca, e feconda delle benedizioni di tutti coloro nei quali un sì palese miglioramento materiale e morale accrescerebbe, se fosse possibile, l’attaccamento al Regime da cui deriva.

Locate, il 27 marzo 1845

G.Lambertini.

Abbiamo accolto con vero piacere la relazione di tante e sì proficue beneficienze, colle quali l’illustre nominata Dama si rende oggetto delle benedizioni del povero, E poiché in essa relazione si accenna all’istruzione religiosa che la Principessa intende sia primissima sopra ogni altra cosa, noi diremo esserci venuto a cognizione ch’Ella stessa, dotta come è nella musica, amò d’istruire gran numero de’ suoi dipendenti nella difficile esecuzione dello Stabat di Rossini, che con meraviglioso effetto si cantò il Venerdì Santo, e con tutto l’impegno si diresse dalla prelodata Principessa che in quella esecuzione ricreava l’anima e la sua mente. Un improvviso Sonetto corse, dopo breve momento, per quelle sontuose sale, e noi lo riferiremo senza farvi il più lieve commento, perché la spontaneità con cui è scritto basta a raccomandarlo.

 

IN OCCASIONE DELLO STABAT MATER DI ROSSINI

Eseguito dalle giovinette di Locate

Io non credea che d’inesperta voce
Trar si potesse mai sublime un canto;
E pur l’udiva, e parea dolce tanto,
Che la memoria ancor dentro mi cuoce.

Fu l’effetto al pensier così veloce(1),
Che creduto l’avria opra d’incanto
Se testimon del ver, non era il pianto
Che fea tenore all’inno della croca.

Oh com’è il core a ognun restò conquiso!
Oh qual vi scese allor conforto e calma
Da quella note si pietose e scorte:

(2) Quando il Corpo fia dato in braccio alla morte
Deh! fa, Signor, che sa donata all’alma
La gloria de’ beati in paradiso

(1) Quindici giorni o poco più fu il tempo che s’impiegò dalla signora Principessa all’istruzione delle giovanette esecutrici, digiune d’ogni nozione musicale.
(2) Quando Corpus morietur, etc.

 

 

Note:

1. Come termine di paragone, un giornaliero, ovvero un lavoratore preso “alla giornata” dai fattori, guadagnava circa una lira al giorno.
Trasposto ad oggi, dodici centesimi potrebbero essere qualcosa come 2 euro. Può essere interessante notare che un numero della Gazzetta Privilegiata di Milano costava 5 centesimi, per cui circa metà di una minestra. Considerando che anche oggi un giornale costa 1 euro, i conti tornano. 

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