Lettere di un esule… n. XX (b)
Un matrimonio turco.
Corrispondenza del N.Y. Tribune
Asia Minore, 15 dicembre 1851
Sono appena tornata da un matrimonio turco e ho trovato la cerimonia abbastanza strana da raccontarvela. Ho notato che i riti della religione maomettana sono poco conosciuti dagli europei, e non credo che gli americani li conoscano meglio di noi. A parte le abluzioni cinque volte al giorno, che costituiscono la parte principale della liturgia di un mussulmano, non sappiamo né ci permettiamo di chiedere come si comportano i ministri della Mezzaluna nel periodo importante della nascita, del matrimonio e della morte dei seguaci. È bene chiedersi se nulla nei loro riti abbia la più lontana analogia con i nostri, se i miti delle antiche religioni asiatiche non siano da rintracciare in essi, o almeno se la parte rituale della religione maomettana sia altrettanto fantastica, capricciosa, infantile, puerile, priva di senso e di moralità quanto la parte morale.
Dal mio arrivo in questo paese ho cercato di raccogliere alcune nozioni sull’argomento, ma ho incontrato molte difficoltà. L’ignoranza di molti, la diffidenza di alcuni e la naturale taciturnità degli altri hanno finora bloccato le conversazioni che cercavo di avviare su questi temi. Ma i miei occhi hanno visto più di quanto le mie orecchie abbiano sentito, e non dispero di ottenere qualche informazione curiosa sulle cerimonie della chiesa mussulmana.
Veniamo subito al matrimonio, che doveva aver luogo tra il figlio di un mio vicino e una giovane donna del paese vicino. Lei, dicevano, era stata molto contraria a sposarsi con un contadino, a lasciare la città e la sua civiltà e a seppellirsi in questa valle solitaria; ma quando aveva saputo che il villaggio dei Franchi[1] era vicino alla proprietà del suo promesso sposo, aveva acconsentito volentieri, il che era molto lusinghiero per noi. Grazie alla mia doppia qualità di vicino e di creditore della famiglia, fui invitata ad assistere alla cerimonia e dichiarai la mia intenzione di rimanere fino all’ultimo momento per vedere tutto ciò che c’era da vedere.
Il padre, la sorella e alcuni amici di entrambi i sessi della famiglia dello sposo erano andati il giorno prima in città a prendere la ragazza (dodici anni) e ad accompagnarla alla sua nuova dimora. Passeggiando tranquillamente nel mio giardino, la mattina di quel giorno movimentato, scoprii lo sposo vestito con gli abiti di tutti i giorni e con un’aria molto triste. Pensai che fosse accaduta qualche disgrazia che avesse interrotto il matrimonio e, chiamando Hassan, gli chiesi cosa lo affliggesse. “Niente”, rispose il ragazzo, aprendo ampiamente la sua grande bocca con un sorriso intenzionale e ammiccando a me con uno sguardo complice; “niente – ma sto per sposarmi, e sai…”. Di nuovo l’ammiccamento e il sorriso, ma non capii nulla. Fortunatamente la madre si unì a noi e, comprendendo la mia domanda, mi informò che era consuetudine, in simili circostanze, che lo sposo si tenesse lontano da tutta la compagnia e, se per caso qualcuno lo incontrava, avesse un’aria il più possibile seria, imbronciata e trasandata. Una sua risata sarebbe considerata la più grande scorrettezza del mondo – davvero scioccante! – e, cosa ancora peggiore, forse porterebbe alle conseguenze più penose, come cadere sotto il potere del malocchio, essere incantato, o cose del genere. Durante la spiegazione, vidi che il ragazzo si sforzava di non scoppiare in una fragorosa risata e, temendo di attirare su di lui ogni sorta di sventura, ( alcune parole illeggibili. ndr) gli chiesi di tornare non appena la sposa avesse fatto la sua apparizione.
Nel tardo pomeriggio, alcune raffiche di moschetto annunciarono l’arrivo previsto. Mi posizionai sullo stretto sentiero che, passando davanti a casa mia, conduce a quella del mio vicino, e in breve tempo vidi il corteo che si avvicinava. Erano tutti a cavallo. Per primo apparve il padre dello sposo nel suo abito più splendido, seguito da due ragazzi straccioni a piedi che fungevano da paggi. Poi gli amici maschi; poi la sorella dello sposo, una giovane donna sposata da poco, di bell’aspetto e piuttosto intelligente; quella cosa che a prima vista non riuscii a nominare, ma che poi indovinai – per la sua posizione nel corteo e per la potente ragione che non poteva essere altro – essere la sposa stessa.
Ciò che si vedeva di lei era un trapunta che avvolgeva con cura una specie di enorme palla, come siamo abituati a vederne tante ammucchiate sul ponte di una nave mercantile. Seguirono le amiche donne, poi la musica e i ballerini del villaggio vicino, alcuni uomini armati di vecchi moschetti e carabine, che rappresentavano la Guardia Nazionale, e infine gli spettatori, uomini e bambini, che correvano, ridevano e gridavano come persone civili.
Anch’io seguii la cavalcata e arrivai alla casa nuziale, giusto in tempo per vedere l’accoglienza della giovane donna. Mentre fermava il suo cavallo (suppongo che il cavallo si sia fermato da solo, ma non importa) le fu consegnato un bambino di due anni. Lei lo prese in braccio, lo fece sedere davanti a sé sulla sella e, tirando fuori dagli anfratti della trapunta una mela, la diede al monello che, avendo completato la sua parte, fu portato via. Toccò ora alla signora con la trapunta smontare, e mi sembrò un’impresa piuttosto notevole; ma ci riuscì abbastanza bene, e arrivò a terra senza aver disturbato molto la simmetria delle pieghe della trapunta. La sua futura suocera, insieme ad altre amiche e parenti, erano in piedi davanti alla porta pronte ad accoglierla, e non appena lei avanzò un ragazzo le mostrò un tappeto. Su questo tappeto si inginocchiò ai piedi della suocera e rimase un attimo in atteggiamento prostrato, come se baciasse la soglia della sua nuova casa e riconoscesse il suo dovere filiale verso la nuova madre. Ero venuta senza alcun sentimento di compunzione, e piuttosto per assistere a una scena ridicola che a una solenne.
Eppure la vista di quella ragazza, di una bambina che entrava in una nuova vita e si prostrava sulla soglia di essa, implorando pietà e affetto, mi commosse, e mi affrettai a entrare in casa, dove arrivai giusto in tempo per vedere la suocera che sollevava la figlia tra le braccia e la baciava con tenerezza.
Poi la giovane sposa fu affidata alle mani della matrona, la porta esterna fu chiusa su di lei e fu portata negli appartamenti interni. Lì seguì una nuova prostrazione e un nuovo abbraccio, ma il mio cuore era indurito contro gli impulsi di fusione e guardai la seconda rappresentazione, chiedendomi perché la prima mi avesse fatto tanta impressione. Mi aspettavo di vedere la ragazza liberata dalle sue ampie pieghe, ma mi sbagliavo. Nonostante la temperatura rovente del giorno, stava avvolta nei suoi molteplici veli – con la testa, il viso, il collo e le spalle completamente coperti – sprofondando sotto il peso degli abiti, delle sciarpe, dei volant e dei gioielli, in un angolo della stanza, singhiozzando e piangendo con tutte le sue forze. Le signore cenavano, le signore cantavano e ballavano, le signore chiacchieravano e facevano molto rumore. Non così la povera ragazza, che stava in silenzio e non faceva altro che piangere. Lei era l’argomento della conversazione; la sua età, la sua famiglia, la sua fortuna, tutto ciò che la riguardava – fino agli stessi baci che aveva ricevuto quel giorno dai suoi fratelli come stimolo al suo coraggio e alla sua forza d’animo – tutto veniva raccontato, discusso e ripetuto più volte; ma lei sembrava a malapena accorgersi di ciò che dicevano e non prendeva alcuna parte all’intrattenimento.
Le ore si susseguivano alle ore; il giorno passava e arrivava la sera, e con la sera iniziavano il sacerdote, o Imaum, e la cerimonia iniziò. Il sacerdote era seduto su un tappeto steso a terra, fuori dalla porta della casa, tra due dei suoi accoliti. Quando fu il momento e tutto fu pronto, il sacerdote cambiò la posizione seduta con quella inginocchiata, invocò la benedizione di Allah e si rimise nel suo primo atteggiamento. A questo punto apparve lo sposo, con un ragazzino di circa dieci anni, che portava una specie di pasta nera su un piatto e la porse al sacerdote, il quale mise il piatto sul tappeto al suo fianco, prese un po’ di pasta, che in seguito seppi essere la keune, e la fece rotolare tra le dita fino a farne una palla mormorando una specie di incantesimo. Poi prese la mano dello sposo, che con il suo straordinario compagno si inginocchiò davanti a lui, e la chiuse, come se volesse mostrargli come si tira di boxe; ma le sue intenzioni erano di natura molto più pacifica. Tenendo la pallina di pasta sulla punta dell’indice, la introdusse nella mano del giovane e, lasciata in essa la maggior parte della pasta, ne estrasse una piccola quantità, la spalmò sull’orifizio del foro formato dalle dita piegate e, inclinando il pollice su di essa, sigillò l’intera mano e sembrò soddisfatto del risultato. Ma temendo, suppongo, che qualche circostanza imprevista potesse distruggere quest’opera capitale, arrotolò più volte un fazzoletto intorno alla mano chiusa dello sposo e non se ne andò finché non si fu accertato che scioglierla non sarebbe stato un affare di un istante. La stessa operazione fu compiuta sulla testa del bambino; dopodiché, entrambi si alzarono e erano sposati, non uno con l’altro, ma con una povera ragazza, che non aveva preso parte alla cerimonia. Che cosa fece in quel periodo? Nient’altro che quello che aveva fatto fin dall’inizio di quel giorno memorabile: piangeva, e io provavo davvero molta compassione per quella povera creatura.
Altre persone, tuttavia, erano meglio occupate all’interno del balamut. Una ragazzina di dodici anni e un ragazzo della stessa età stavano preparando il divano per la nuova coppia, inginocchiandosi, facendo la corte e cantando a ogni nuovo pezzo di arredamento. Sistemati i materassi, fecero una genuflessione; sistemati i cuscini, si prostrarono sul pavimento; sistemate le lenzuola e le coperte, incrociarono le braccia sul petto, chinarono il capo e cantarono per tutto il tempo. La vista dei loro movimenti era piuttosto piacevole.
A quel punto mi ritirai e rimasero solo i parenti più stretti dello sposo. Ma il mattino seguente andai, come richiedeva il galateo, a fare i miei complimenti alla nuova coppia, e trovai il volto della giovane sposa raggiante di sorrisi. Mi complimentai con lo sposo per l’efficacia dei suoi tentativi di consolazione, aggiungendo che non avevo mai visto tante lacrime asciugate in così poco tempo. “La ragazza era piuttosto giù, ieri, nel lasciare la sua vecchia casa”, rispose la cognata; “ma per quanto riguarda le lacrime, non ha significato; avrebbe dovuto piangere e ha fatto bene la sua parte”. E giurai di non cedere mai, in futuro, alla compassione per una ragazza che piangeva, senza prima accertarmi che non fosse per galateo e decoro che lasciasse uscire le lacrime (parole mancanti) dagli occhi.
Christine Trivulzio di Belgiojoso
[1] Così nel testo. Franks nel senso di francesi, in realtà la fattoria di Cristina.